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Le bioplastiche sono molto meno “green” di quanto pensiamo, almeno in Italia

Per la svolta green italiana centrale è stato l’argomento sulle plastiche cosiddette compostabili, erroneamente considerate materiali a “impatto zero”. Una nuova indagine [1] dell’Unità Investigativa di Greenpeace Italia ha messo in evidenza la cattiva gestione dei rifiuti derivanti da prodotti in plastica compostabile, in Italia per legge raccolti nell’organico mentre nella maggior parte dei Paesi europei considerati indifferenziati. Il report di Greenpeace spiega nel dettaglio il ciclo vitale delle compostabili, di cui circa il 63 percento finisce in impianti in cui l’effettiva degradazione è solo che teorica. Non a caso in ogni struttura italiana analizzata dai ricercatori sono emerse svariate problematiche nel trattamento dei rifiuti a questo punto solo apparentemente green. Oppure le compostabili possono arrivare in siti dove non è detto esse rimangano tutto il tempo realmente necessario a degradarsi.

Così alla fine invece della prevista decomposizione, le plastiche compostabili vanno nelle discariche o bruciano negli inceneritori. Viene da sé come i prodotti – solo a parole – “a impatto zero” siano “riciclati” in maniera sbagliata. Un’altra incongruenza [2] del tanto osannato Governo della Transizione ecologica [3]? Eppure anche se con ancora molta strada da fare, il Bel Paese pareva in prima linea per rendere la raccolta differenziata il più possibile efficace, specialmente dopo l’obbligo ufficiale [4].

Intanto i consumatori sono ignari sia del vero ciclo dei materiali considerati del tutto rispettosi per l’ambiente, che dell’importanza di tagliare i rifiuti compostabili prima di gettarli nell’umido cosicché essi siano delle dimensioni necessarie per la successiva decomposizione. Senza parlare dei test di laboratorio volti a misurare la compostabilità della plastica, i quali ipotizzano che questa costituisca l’1 percento del rifiuto umido. Ma dall’ultimo studio CIC-Corepla [5] (ente che raggruppa le imprese della filiera del packaging) è invece emersa la reale incidenza della plastica green presente nella raccolta dell’organico, di quasi 4 volte maggiore di quanto calcolato (circa il 3,7 percengo nel 2020).

Il report di Greenpeace dal titolo “Altro che compost [1]” spiega poi cosa siano davvero i materiali presi in esame, ovvero “Plastiche certificate conformi allo standard europeo EN 134321 relativo agli imballaggi, o allo standard europeo EN 14995 per gli altri manufatti diversi dagli imballaggi2”. Certificazioni che assicurano un “Materiale biodegradabile e compostabile in un dato tempo in impianti di compostaggio industriale”. Nello specifico, mentre un prodotto biodegradabile si degrada sotto l’azione di microrganismi e in presenza di ossigeno, un prodotto compostabile non può decomporsi in ambienti completamente naturali. I prodotti compostabili completano invece il loro ciclo solo in appositi impianti di trattamento, senza in teoria creare alcun problema alla struttura e assicurando un compost finale di qualità.

Ecco perché l’Italia della “Transizione ecologica” ha scelto di puntare sulle compostabili, ma lo ha fatto in modo poco onesto, confermandosi come uno dei pochi Paesi in Europa ad avere “Inserito una deroga alle limitazioni di Bruxelles sulle plastiche monouso” (la Direttiva SUP – Single Use Plastic16 [6]). Nel Paese sono stati messi al bando alcuni prodotti in plastica monouso da cui però stati esclusi gli articoli realizzati in plastica biodegradabile e compostabile18, che invece nella Direttiva comunitaria sono al pari delle plastiche tradizionali. In parole povere, un modo molto sottile che permette di aggirare la direttiva.

Le etichette “Posate biodegradabili e compostabili”, “Piatti green”, “Imballaggio da gettare nella raccolta dell’umido” della “plastica ecologica” hanno in un certo senso illuso i consumatori, facendo credere loro che fosse possibile utilizzare determinati prodotti finalmente senza conseguenze dannose per l’ambiente. E sarebbe così, se questi una volta diventati rifiuti, venissero gestiti correttamente. Se i materiali usa e getta in plastica compostabile creati appositamente per decomporsi, finiscono in impianti progettati precedentemente per i rifiuti biodegradabili (che come sottolineato si decompongono differentemente dai primi) non completano il processo di riciclaggio, come chiarisce Utilitalia (Federazione di aziende operanti nei servizi pubblici della gestione di rifiuti, acqua, ambiente, energia elettrica e gas).

Ecco anche spiegato come nella maggior parte dell’Europa sia normale gettare i prodotti in plastica compostabile nell’indifferenziato. In Italia invece si è diffuso quello che Greenpeace ha denunciato come un “Greenwashing di Stato [7]”, perché i prodotti in plastica compostabile gettati nell’umido diventano dannosi per l’ambiente al contrario di ciò che è stato fatto credere, e proprio per il modo in cui vengono trattati una volta diventati rifiuti.

[di Francesca Naima]