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La Corte europea boccia il ricorso dei poliziotti condannati per i fatti della Diaz

La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha dichiarato irricevibile il ricorso presentato da due dirigenti e otto agenti di polizia condannati per falso ideologico nell’ambito del processo per il G8 di Genova del 2001. I ricorrenti avevano infatti ritenuto leso il proprio “diritto alla difesa” in quanto la Corte d’appello di Genova, emettendo le condanne, non aveva riascoltato i testimoni sentiti in primo grado. La CEDU ha tuttavia stabilito che le testimonianze non avevano avuto un ruolo decisivo nel corso del processo, dichiarando per tale motivo del tutto infondato il ricorso.

In questo modo è stata finalmente scritta la parola “fine” su di una vicenda trascinatasi per oltre vent’anni e che ha profondamente segnato la storia contemporanea del nostro Paese. Fu Amnesty, infatti, a definire quanto avvenuto all’interno della scuola Diaz “la più grave violazione dei diritti umani in una democrazia occidentale nel dopoguerra”. I fatti avvenuti quella notte e le vicende giudiziarie che seguirono portarono alla luce le eclatanti anomalie e lacune del sistema giuridico italiano, che non ha introdotto il reato di tortura sino al 2017 (con un ritardo a dir poco clamoroso rispetto a numerosi altri Paesi europei).

La notte [1] tra il 21 e il 22 luglio 2001 infatti, mentre i cittadini che avevano preso parte alle manifestazioni contro il G8 di Genova dormivano all’interno della scuola Diaz, le forze di polizia hanno fatto brutalmente irruzione e dato il via a quella che il vicequestore Michelangelo Fournier ha definito una “macelleria messicana”. Le persone furono infatti violentemente assalite dagli agenti: finirono in ospedale in 61, tre dei quali in prognosi riservata e uno in coma. In seguito alla vicenda gli agenti produssero un gran numero di prove false che fornissero una giustificazione a quanto avvenuto. Tra queste vi fu l’introduzione di due molotov all’interno della scuola e la lacerazione della giacca di uno degli agenti, al fine di far credere che i manifestanti fossero armati, accusa rivelatasi poi del tutto infondata.

I dieci funzionari che hanno presentato il ricorso [2] alla CEDU erano stati tutti processati nel 2004 per reati di calunnia, abuso di autorità pubblica, falsificazione intellettuale e complicità in falsificazione intellettuale insieme ad altri 18 colleghi. Assolti da tutte le accuse in primo grado, furono poi condannati in secondo grado per i reati di falso intellettuale e concorso in falso intellettuale, dopo che la Corte d’appello aveva dimostrato la partecipazione attiva dei poliziotti all’intera operazione e stabilito che i rapporti di perquisizione e arresto restituivano una descrizione “oggettivamente distorta” degli eventi.

Le condanne erano giunte senza che la Corte riascoltasse i testimoni che avevano deposto in primo grado, motivo per il quale i dieci poliziotti hanno presentato ricorso ritenendo leso il proprio diritto alla difesa. Tuttavia la CEDU ha stabilito che, seppur fosse vero quanto dichiarato, le deposizioni dei testimoni “non hanno avuto un ruolo decisivo né nell’assoluzione né nella condanna dei ricorrenti per i reati di falsificazione intellettuale e complicità nella falsificazione”. Tale condanna si è infatti basata “sulla ricostruzione dei fatti come stabilito dal giudice del processo sulla base delle ampie prove documentali e delle dichiarazioni di alcuni ricorrenti”. In base a queste considerazioni la Corte ha ritenuto il ricorso “manifestamente infondato” e lo ha respinto, dichiarando la domanda “irricevibile”.

Come ricordato da Enrico Zucca, uno dei pm che condussero le indagini, i fatti della Diaz sono oggi più attuali che mai, in quanto evocano “abusi di polizia [3] non ancora sanati”. In tale situazione “la classica giustificazione delle poche mele marce [4] all’interno di un corpo sano non regge in modo evidente”.

[di Valeria Casolaro]