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Ristudiare l’agricoltura indigena è la chiave per ripristinare i terreni danneggiati

Riprendere in mano i metodi tradizionali dell’agricoltura indigena può essere la chiave per il rimettere in salute un territorio provato dopo anni di sfruttamento delle risorse attraverso i sistemi agricoli industriali. Ne è prova il lavoro effettuato negli ultimi dieci anni dall’organizzazione no-profit Ancestral Lands [1]. In base alla esperienza di reintroduzione delle colture tradizionali sui terreni di Acoma – un villaggio nello stato del Nuovo Messico, negli Stati Uniti – è nata una banca di 57 semi aridi originari della regione. Dal 2016, l’Ancestral Lands Farm Corps, ha anche ripristinato una forma di agricoltura tradizionale in cui si utilizza la raccolta passiva dell’acqua piovana per colture in grado di resistere a un clima tanto incerto e alle conseguenze del riscaldamento globale. Differentemente dalla maggior parte delle fattorie convenzionali, se piove il campo non viene irrigato mentre in caso di assenza di precipitazioni, vene data acqua “artificialmente” per un massimo di due volte al mese. Sebbene quella descritta sia una pratica quasi estinta, il risultato è stato un successo perché nonostante le scarse piogge, le tecniche utilizzate preservano la naturale umidità del suolo.

Come attestato dalle Nazioni Unite [2], dal secolo scorso ben il 75 percento della diversità delle colture è scomparsa, proprio a causa dell’avvento dell’agricoltura intensiva. Eppure le pratiche agricole tradizionali possono proteggere i terreni, la biodiversità ed anche l’ambiente, perché strettamente legate ai cicli naturali. L’esempio nel villaggio di Acoma è parte di un movimento volto a contrastare le perdite globali di biodiversità causate da sistemi di sfruttamento del territorio che oltre a danneggiare l’ambiente oscurano le popolazioni locali e le loro usanze, strettamente connesse al rispetto dell’ambiente circostante. Una conoscenza ecologica andata avanti per millenni senza danneggiare la natura, dando esempio di un modello di resilienza e poi sostituita dai moderni modelli agricoli. E la comunità di Acoma è prova di un sistema alimentare olistico, reciproco e autosufficiente, adattato all’alto deserto, in grado di resistere alla siccità estrema e ai cambiamenti climatici. Anche perché nel villaggio l’agricoltura è alla base della cultura e della sopravvivenza degli abitanti.

Un ulteriore esempio di come le comunità indigene, se e quando libere di amministrare le proprie terre, possono contribuire meglio di chiunque altro [3] a preservare il Pianeta. Non a caso i più di 300 studi scientifici riportati nel report della Fao dello scorso anno mostrano quanto i tassi di deforestazione nelle foreste dell’America Latina e dei Caraibi gestite dai popoli indigeni siano di gran lunga più bassi [4] rispetto ai dati registrati in aree non protette dalle popolazioni locali. E non basta lasciare libero chi vive naturalmente connesso al rispetto ambientale, ma è necessario iniziare ad ascoltare le voci e le opinioni dei “difensori della Madre terra [3]“. Come le comunità locali dell’Ecuador e del Perù che si sono impegnate per presentare un piano per proteggere l’80 percento [5] della foresta pluviale amazzonica entro il 2025, contro progetti internazionali di chi del territorio sa e percepisce ben poco.

[di Francesca Naima]