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L’emergenza climatica nel disegno delle élite globali

In un mondo in cui la pubblicità la fa da padrone, l’immagine è tutto. Oggigiorno il marketing è immanente e comprende ogni aspetto della vita. Come comprensibile che sia, il settore economico è re e alfiere della pubblicità ma anche la politica è oggi qualcosa di molto simile ad una permanente campagna pubblicitaria che si combatte a colpi di slogan e cinguettii. Alcuni movimenti ambientalisti sono stati inglobati in questo tipo di comunicazione ad effetto, facendo calare sulla società le ombre della manipolazione, con il risultato che la questione ecologica venga da molti vista non come un vero problema ma accostata a qualcosa di sospetto. Come se fosse l’ultima emergenza fittizia inventata dalle élite e propinata al “popolo bue” per imporre i propri disegni egemonici. Di fondamentale importanza è coltivare il dubbio, che deve però essere sviscerato con discernimento rispetto alla complessità di domande che si rivolgono al tema, direttamente e indirettamente, avendo chiara la varia collocazione dei punti che compongono la costellazione del problema indagato.

Ecologia, potere e marketing

Risulta quindi chiaro che l’aspetto ecologico, interdipendente a quello sociale, è una questione problematica da affrontare nel discernimento della complessità. Sotto gli occhi di tutti è il degrado ecologico degli ambienti naturali con inquinamento pesante di acqua, terra e aria. Al di là della “questione climatica”, la distruzione degli ecosistemi è innegabile. Allo stesso tempo, proprio perché non dobbiamo dividere il mondo in bianco e nero o ridurre tutto ad un codice binario di zero e di uno, non si può che comprendere gli enormi dubbi che le persone si pongono su mirabolanti progetti, promesse utopiche, approcci paternalistici e forzature di linguaggio. A maggior ragione quando il “cambiamento” dovrebbe essere portato da chi la situazione da cambiare l’ha creata: in altre parole, quando la soluzione al problema viene proposta proprio da chi questo problema lo ha generato. Risulta quindi lecito coltivare dubbi e resistenze rispetto alla narrazione di coloro che adesso sostengono lo “sviluppo sostenibile” ma che hanno guidato il mondo insostenibile fatto di sfruttamento della natura e dell’uomo, da cui hanno tratto immensi profitti. Quindi, perché il potere capitalistico, dopo anni di negazionismo e ostracismo, ora “picchia” così costantemente sullo “sviluppo sostenibile” affinché si risolvano i problemi ecologici?

Dagli anni Ottanta le pratiche di greenwashing sono diventate man mano sempre più diffuse e si sono avvalse delle tecniche di marketing più all’avanguardia, sostenute da montagne di soldi. Oggi, il greenwashing – ovvero l’attuare strategie di comunicazione e marketing per presentare come falsamente ecosostenibili ed attente all’ambiente le proprie attività – sembra essere diventato endemico nel mercato capitalistico che cerca di rivoluzionarsi nel tentativo di cambiare tutto affinché niente cambi. Tradotto: stravolgere la società umana al fine di mantenere chi detiene le leve del potere ai posti di comando. Il “lavaggio verde” non è più rivolto a singole cause e questioni bensì è legato indissolubilmente all’ideologia dominante capitalista, dall’economia reale alla finanza, di cui è massima espressione il World Economic Forum, ovvero il consesso mondiale delle grandi multinazionali. La pratica delle “menzogne verdi” oggi non coinvolge più solo le grandi aziende, ma è divenuta pratica usuale dei governi stessi, a partire da quello italiano [1] guidato dall’ex banchiere Mario Draghi, che anche su questo tema si sta dimostrando un laboratorio d’avanguardia.

Nuova energia stesso sistema

Le multinazionali impegnate nel settore delle risorse fossili [2] sono quelle che applicano il greenwashing in maniera più sfacciata e palese rispetto ad ogni altro settore; d’altronde fu proprio tale settore produttivo dell’economia capitalista che per primo sentì la necessità di dare all’opinione pubblica una diversa immagine del proprio operato. Il settore energetico è quello che in maniera più evidente è sottoposto alla narrazione dello “sviluppo sostenibile” e, così, la “transizione energetica” sembra essere al centro dell’attenzione dell’intera azione riguardo ciò che viene definito “cambiamento climatico” ma che in maniera più verosimile è degrado ecologico e sociale. Perché questo? L’energia è alla base di tutto e fa muovere il tutto, compresa la nostra società. Controllare il settore energetico appare dunque strategico per controllare ampie parti della società nel suo complesso. Appreso questo è facile comprendere come il potenziale di cambiamento che la transizione energetica porta con sé non è solo ecologico, bensì politico. A differenza degli impianti che utilizzano risorse fossili per la produzione di energia, i quali necessitano di ingenti capitali che concentrano il potere nelle mani di pochi, le energie rinnovabili permetterebbero, con la loro diffusione, il decentramento energetico e la democratizzazione energetica. Ma la logica che si vuol applicare all’energia rinnovabile è la medesima: il concentramento energetico, quindi economico, politico e sociale. Sembrerebbe quindi che la “crisi climatica” sia tutta da ascrivere al tipo di energia utilizzata – e di CO2 prodotta [3] – per spingere avanti l’enorme macchina del mercato capitalista globale. In sostanza, si vorrebbe mettere il catalizzatore all’economia della competizione e dello sfruttamento. Tutto deve cambiare affinché niente cambi davvero, ignorando il reale degrado ecologico mondiale prodotto dal sistema produttivo e distributivo di tipo capitalistico il quale produce  – specialmente con la massiccia componente tecno-digitale – anche la degradazione dell’uomo e del sociale.

Ecologia, finanza e nuova umanità

Come spiegato nel Monthly Report [4] di agosto, nell’approfondimento “Big Three”: i fondi d’investimento che comandano il mondo [5], in cui vi avevamo parlato del posto di primo rilievo che la finanza ha, e in particolare i fondi d’investimento (alcuni in particolare), nella gestione del potere globale, il settore finanziario pone il proprio peso anche nella questione ecologica tanto nelle sue cause e problematiche quanto nelle soluzioni offerte alle stesse. Da dieci anni a questa parte, abbiamo potuto vedere l’esplosione dei titoli azionari ESG (Environmental, social, governance) che indicano titoli d’investimento che operano in maniera virtuosa nei confronti dell’ambiente, nel sociale e nella governance. L’analista finanziario Roman Gaus, scagliandosi contro il greenwashing, ha recentemente affermato [6]: «L’investimento sostenibile non è mai stato completamente definito. Gli approcci ESG e di investimento sostenibile come le tematiche sostenibili, le basse emissioni di carbonio o gli investimenti a impatto variano in modo significativo in termini di qualità e sostanza, creando la falsa interpretazione che siano ugualmente sostenibili. Prendiamo l’allineamento climatico, ad esempio uno studio EDHEC ha rivelato che quando si confronta un fondo etichettato come “verde” con un fondo di investimento convenzionale, i pesi delle azioni sono diversi solo del 12%, mentre il restante 88% è lo stesso».

E poi dovremmo chiederci: chi, e sulla base di cosa, decide quando un titolo (quindi, un’azienda) sia virtuoso? Persino Steven Maijoor, Presidente dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA), già lo scorso anno si è interrogato su questo aspetto [7], chiedendo che l’UE intervenga sulla questione. Recentemente, 57 organizzazioni – che gestiscono 8,5 mila miliardi di euro di attività – hanno pubblicato una lettera aperta in cui si chiede che vengano adottati dei criteri standard globali per i titoli ESG. Queste organizzazioni sostengono, in materia finanziaria, l’operato della Fondazione IFRS [8] sul lancio dell’International Sustainability Standards Board (ISSB). In aperta adesione al Green Deal europeo, tali soggetti spronano la Commissione europea ad unirsi alla loro “missione”. Tra i firmatari della lettera troviamo soggetti come Eni, Enel, Leonardo, Snam, Deutsche Bank, Allianz, Total Energies, ABN AMRO, HEINEKEN e altri. La lettera è inoltre sostenuta dal World Economic Forum (WEF), dall’European Round Table for Industry, dal Value Balancing Alliance e dal World Business Council for Sustainable Development (trovate la lettera completa [9] sul sito del WEF).

Greenpeace ha recentemente definito “lavaggio verde” il sistema delle compensazioni di carbonio [10] e la questione climatica sembra essere tornata in cima alla classifica delle preoccupazioni umane [11], scalzando la pandemia. E c’è chi sembra voler accostare e intersecare la crisi climatica con quella pandemica, volendo affrontare le due problematiche con narrazioni e strumenti simili tra loro, quando non addirittura interdipendenti: questo qualcuno si chiama ancora World Economic Forum [12].

Le grandi manovre in corso alla COP26

Al G20 tenutosi a Roma, si è parlato di clima ma anche di Covid-19 e vaccini. In tale occasione, il nostro presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha affermato: «Abbiamo intensificato i legami tra finanza e salute anche perché è necessario per prevenire le epidemie, le nuove pandemie e soprattutto, in generale, per assicurarci una preparazione ai prossimi, purtroppo inevitabili, drammi sanitari».

Pochi giorni dopo l’evento internazionale svoltosi nel Bel Paese, si è aperto un altro consesso mondiale, a Glasgow, Scozia, specificamente rivolto alle tematiche ambientali: la CoP26, conferenza delle Nazioni Unite sul clima. In questa occasione Mario Draghi è intervenuto [13] dicendo che «i soldi non sono un problema» e che il settore privato dovrà essere sostenuto dal quello pubblico; tradotto: una marea di soldi dei cittadini in favore di banche e multinazionali, allo scopo dichiarato di «condividere con il settore privato i rischi che quest’ultimo non può sopportare». Insomma le possibili perdite vanno socializzate mentre i profitti rimarranno in poche mani: un mantra del neoliberismo.

Accettare la sfida, pretendere la verità

Draghi, in una specie di monito finale, ha altresì avvertito che il cambiamento climatico «ha anche ripercussioni serie sulla pace e la sicurezza globali». Tant’è che nel discorso di apertura dell’evento, il Principe Carlo – erede al trono britannico – ha detto: «Il mondo deve mettersi in una disposizione di spirito bellica, da ultima spiaggia, di fronte alla sfida dei cambiamenti climatici che incombono sul pianeta. Dobbiamo metterci sul piede di guerra». E come la pandemia è stata più volte accostata ad una guerra – con congrui atti legislativi e amministrativi – anche la questione climatica inizia ad assumere una disposizione bellica. E lo stato di guerra, dichiarato formalmente o meno, come abbiamo già visto, implica leggi e società di guerra. Insomma, se è vero (e lo è) che l’emergenza ecologica è grave e reale, altrettanto vero è che i soliti hanno già apparecchiato la tavola per trasformare l’emergenza in un’abbuffata senza precedenti. In apertura del pezzo si parlava dell’importanza di discernere e comprendere la complessità dei fatti. In questo caso la soluzione non è negare l’emergenza in sé, ma contrastare il modo in cui l’élite politico-finanziaria globalista intende risolverla.

[di Michele Manfrin]