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Euro-propaganda, il fiume di soldi da Bruxelles ai grandi media

Non si tratta più di un sospetto: il sistema mediatico europeo è forgiato, selezionato, premiato o punito in base alla sua adesione ai dogmi dell’europeismo. A dimostrarlo, in modo inequivocabile, è il rapporto Brussels’s Media Machine [4], realizzato dal giornalista e saggista Thomas Fazi per il think-tank ungherese Mathias Corvinus Collegium (MCC Brussels). Uno studio rigoroso e documentato che scoperchia l’enorme apparato con cui Commissione e Parlamento Europeo finanziano il circuito dell’informazione con fondi europei, trasformandolo in una vera e propria macchina del consenso, e che viene pubblicato pochi mesi dopo il precedente rapporto The Eu’s propaganda machine [5], incentrato sul ruolo delle ONG [6] e dei centri studio come megafoni dell’imperialismo culturale della Commissione. 

Un miliardo di euro in dieci anni: il prezzo dell’allineamento

Secondo il rapporto, l’UE ha riversato negli ultimi dieci anni almeno un miliardo di euro a favore di media, agenzie di stampa, programmi giornalistici e piattaforme digitali. Una cifra che corrisponde a circa 80 milioni di euro l’anno in finanziamenti diretti, senza contare quelli indiretti, come contratti pubblicitari o di comunicazione assegnati ad agenzie di marketing, che poi ridistribuiscono i fondi ai principali organi di stampa che accettano di diffondere la narrazione europeista. Lungi dal limitarsi a sostenere il pluralismo e l’indipendenza, l’obiettivo di questo sistema appare orientato anche a plasmare l’opinione pubblica, promuovere narrazioni in favore delle politiche europee e marginalizzare le voci critiche. 

I principali strumenti della propaganda

La rete di finanziamento si articola in una serie di programmi chiave: 

Le agenzie stampa come guardiani della narrazione

Uno degli snodi centrali è il ruolo delle agenzie di stampa, la mano nascosta che plasma la narrazione mediatica globale. Essendo fonti primarie per centinaia di media, controllarne la linea equivale a controllare il messaggio, spesso replicato alla lettera dagli altri organi di stampa. È per questo che la Commissione collabora strutturalmente con ANSA (Italia), EFE (Spagna), Lusa (Portogallo), AFP (Francia) e molte altre. La sola ANSA, ad esempio, ha partecipato ad almeno due dozzine di campagne mediatiche finanziate dall’UE. 

La Commissione ha anche speso quasi 2 milioni di euro attraverso il suo programma Azioni Multimediali (a cui sono stati stanziati oltre 20 milioni di euro solo nel 2024) per la realizzazione dell’European Newsroom (ENR): avviato nel 2022, il progetto ha previsto la creazione di un centro di produzione di notizie a Bruxelles, dove i corrispondenti delle “agenzie” producono congiuntamente riassunti di notizie due volte a settimana, alimentando reciprocamente le rispettive agenzie di stampa e i canali di diffusione, offrendo così una prospettiva paneuropea sugli affari dell’UE al pubblico di tutto il continente. 

Journalism Partnerships: come Bruxelles orienta il giornalismo “collaborativo”

Uno dei canali più significativi attraverso cui la Commissione Europea finanzia – e, quindi, indirizza – l’informazione in Europa è il programma Journalism Partnerships, attivo dal 2021 e incardinato nel quadro del programma Creative Europe. Si tratta di una linea di finanziamento che ha messo a disposizione circa 50 milioni di euro nel periodo 2021-2027 per progetti “collaborativi” tra testate, reti editoriali e organizzazioni giornalistiche europee. L’obiettivo di chiarato è «rafforzare il pluralismo e la resilienza del settore giornalistico». Tuttavia il programma premia con insistenza le proposte orientate all’integrazione europea, alla promozione dell’agenda verde e digitale dell’UE, alla «coerenza informativa» su temi chiave come migrazioni, politiche economiche, guerra in Ucraina e contrasto all’euroscetticismo. Diverse testate italiane partecipano attivamente ai progetti Journalism Partnerships, in consorzi transnazionali che coinvolgono media, università e ONG. È il caso, ad esempio, del gruppo GEDI (editore di Repubblica, La Stampa, HuffPost), di RAI e di piattaforme come Pagella Politica.

Il punto critico, sottolineato dal dossier di Fazi, è che questi partenariati spesso contribuiscono a standardizzare la narrazione europea, allineando linguaggio, messaggi e priorità editoriali. Il giornalismo diventa così una rete di ripetizione strutturata, dove il dissenso non viene censurato apertamente, ma disincentivato silenziosamente.

Fact-checking finanziato e verità condizionata

L’Osservatorio Europeo dei Media Digitali (EDMO), presentato come bastione contro le fake news e finanziato con almeno 27 milioni di euro, viene in realtà definito un sistema di filtraggio ideologico. Partecipano al progetto agenzie già coinvolte in attività promozionali per l’UE, tra cui AFP, ANP, DPA e Lusa. In Italia, partner di EDMO è il gruppo GEDI e l’emittente pubblica RAI.

Quando chi riceve fondi per fare “giornalismo” è anche incaricato di sorvegliare i confini del discorso accettabile e di decidere cosa è vero e cosa è falso, il rischio non è solo quello della censura: è la soppressione sistematica del dissenso, bollato come “disinformazione”.  

Il caso Euronews: la CNN d’Europa

Uno dei casi più emblematici della fusione tra media e potere europeo è quello di Euronews, l’emittente televisiva paneuropea con sede a Bruxelles che venne fondata nel 1993 da una collaborazione tra le emittenti pubbliche del continente, oggi di proprietà del fondo d’investimenti portoghese Alpac Capital. Storicamente presentata come «la voce neutrale dell’Europa» ma che, nel tempo, si è trasformata in una appendice comunicativa della Commissione Europea. Quest’ultima ha versato tra il 2015 e il 2020 circa 122 milioni di euro nelle casse del network con sede a Lione. Questi fondi hanno rappresentato fino al 60% del fatturato totale dell’emittente in certi anni, rendendo Bruxelles di fatto il suo principale finanziatore. Il paradosso è che, pur formalmente indipendente, Euronews ha stipulato un contratto di servizio pubblico con la Commissione, che le ha affidato il compito di diffondere contenuti sulle politiche e le priorità europee e di fornire copertura in tutte le lingue ufficiali dell’UE. Una funzione nobile solo in apparenza: nella realtà si traduce in una linea editoriale strutturalmente allineata all’agenda comunitaria, in cambio di fondi che ne garantiscono la sopravvivenza economica. Questo modello rappresenta una forma diretta di “propaganda istituzionale”, che si regge su vincoli economici e accordi contrattuali, agendo di fatto come organo promozionale. 

L’investigazione a senso unico

E le inchieste? L’UE finanzia anche il giornalismo investigativo, purché sia diretto all’esterno. Gran parte dei progetti finanziati – come IJ4EU (3 milioni), ICIJ, MediaResilience – puntano a investigare su Russia, Kazakistan, Africa, paradisi fiscali. Nessuna indagine seria su corruzione od opacità istituzionale all’interno dell’UE, nonostante i numerosi scandali documentati al suo interno. Quello d’inchiesta appare quindi come una forma di giornalismo da incentivare ma a patto che non si occupi di quanto avviene dentro le mura del Vecchio Continente. 

La propaganda del Parlamento Europeo

Il Parlamento Europeo, attraverso la sua Direzione generale della Comunicazione, ha stanziato quasi 30 milioni di euro dal 2020 per campagne mediatiche, inclusi contenuti esplicitamente autopromozionali in vista delle elezioni. L’obiettivo è «aumentare in modo più efficace la portata verso un pubblico mirato con messaggi relativi all’attività del Parlamento Europeo», aggiungendo «legittimità alle campagne del Parlamento». 

Una strategia che ricorda l’USAID

Il modello seguito da Bruxelles ricalca quello americano dello USAID, l’agenzia per lo sviluppo finita sotto la scure del governo Trump, che per decenni ha finanziato media all’estero per promuovere gli interessi geopolitici statunitensi. Non a caso, molti progetti UE all’estero (Ucraina, Balcani, Caucaso) sono orientati proprio a “rafforzare la democrazia” attraverso il finanziamento a media e organizzazioni di stampo liberale ed europeista. Solo nel 2025 sono stati destinati 10 milioni di euro ai media ucraini. Dopo il taglio ai fondi da parte di Trump a Radio Free Europe/Radio Liberty, Bruxelles è subentrata nel ruolo di sponsor. 

La stampa come cinghia di trasmissione

La macchina della propaganda europea, che si dipana tra ONG, media e accademia, «supera le aspettative del più cinico dei critici», ha spiegato a L’Indipendente Thomas Fazi, che è rimasto stupito dalla mole di finanziamenti diretti ai media. Ed è anche per questo che il rapporto sta avendo un impatto silenzioso, ma non per questo meno incisivo, sui palazzi di Bruxelles. 

Il quadro delineato è chiaro: dal rapporto emerge una Commissione Europea interessata non tanto a sostenere la stampa libera, quanto a comprarne i favori, in quella che viene definita una «relazione semi-strutturale tra istituzioni europee e media mainstream». Non si tratta di intromissioni redazionali, ma di creare un rapporto di dipendenza economica, che induce automaticamente allineamento e servilismo. Un sistema si autoalimenta: i media che già mostrano simpatia per Bruxelles ricevono fondi; chi li riceve evita critiche per non perderli. Un circolo vizioso che soffoca ogni autonomia. E tutto questo, va ricordato, viene pagato con i soldi dei contribuenti. Quegli stessi cittadini che ricevono una verità confezionata su misura, in cui le testate parlano con una voce sola, ripetendo le stesse parole d’ordine, gli stessi titoli, le stesse versioni fotocopia. L’effetto è devastante: si uccide il pluralismo, si offusca il dissenso, si trasforma il giornalismo in megafono della tecnocrazia.

C’è un’illusione persistente nel dibattito pubblico italiano: che la stampa mainstream sia libera per definizione, che i media rappresentino “il cane da guardia” del potere e che la neutralità sia tutelata da una presunta autorevolezza editoriale. Uno sguardo ai dati rivela un’altra realtà. Secondo il dossier Brussels’s Media Machine [4] di Thomas Fazi (MCC Brussels, giugno 2025), il sistema di finanziamento UE alla stampa è tutt’altro che secondario: si tratta di una macchina che distribuisce circa 80 milioni di euro all’anno per promuovere narrazioni pro-UE, spesso senza trasparenza per il lettore. L’Italia, da questo punto di vista, è un caso esemplare. Il rapporto evidenzia un vero e proprio sistema parallelo di finanziamento condizionato, in cui Bruxelles premia gli allineati e isola i divergenti. Si badi bene: non si tratta di piccoli editori locali bisognosi di sopravvivere in un mercato difficile, ma di colossi editoriali strutturati che ricevono fondi consistenti in cambio di una narrazione smaccatamente filoeuropeista. Il tutto senza dichiarare in modo trasparente al lettore il ruolo dell’UE nella produzione dei contenuti. Una violazione della fiducia, che richiama alla mente le modalità della propaganda e del “marketing occulto”.

ANSA: il braccio armato di un’informazione conforme

ANSA, l’agenzia di stampa leader in Italia, è il principale vettore della narrazione europeista, per il semplice motivo che i suoi contenuti vengono rilanciati da centinaia di altre testate, locali e nazionali. Secondo i dati ufficiali analizzati da Fazi, ANSA ha ricevuto quasi 6 milioni di euro dalla Commissione Europea negli ultimi dieci anni. Nel dettaglio, l’agenzia di stampa ha beneficiato di oltre 800.000 euro dalla Commissione Europea per almeno tre progetti strutturati – Italy: Cohesion Goes Local (265.000 euro), Time4Results (270.000 euro) e The Cohesion Policy Today and Tomorrow – Italy (270.000 euro). Questi progetti, finanziati nell’ambito del programma IMREG (Information Measures for the EU Cohesion Policy), hanno prodotto migliaia di contenuti multimediali su scala nazionale e locale, molti dei quali rilanciati da oltre 20 testate locali, tra cui Gazzetta del Sud, La Sicilia e La Gazzetta del Mezzogiorno. ANSA è stata coinvolta anche nel progetto FANDANGO, istituito «per individuare le notizie false e fornire una comunicazione più efficiente e verificata per tutti i cittadini europei», finanziato quasi interamente dalla Commissione Europea (attraverso il programma Horizon 2020) per un importo di quasi 3 milioni di euro.

La funzione è chiara: portare il verbo europeista nelle periferie e legare l’immagine dell’UE a benefici concreti e tangibili. L’inganno più grande? Nella maggior parte dei casi non è specificato che i contenuti siano stati finanziati dall’UE, né che le linee editoriali rispondano a obiettivi dettati da Bruxelles.

RAI: il servizio pubblico al servizio dell’Unione

Anche la RAI è coinvolta in modo sistematico nel circuito dei finanziamenti europei, in particolare attraverso progetti legati all’alfabetizzazione mediatica, alla promozione dei “valori europei” e alla lotta alla disinformazione. La RAI partecipa, infatti, all’hub italiano dell’European Digital Media Observatory (EDMO), assieme a GEDI, Pagella Politica, Università di Roma Tor Vergata e TIM. L’iniziativa, che rientra nel programma Digital Europe, è stata finanziata con oltre 27 milioni di euro a livello europeo, di cui una parte consistente è destinata proprio alla realizzazione di contenuti multimediali, attività formative e campagne di verifica dei fatti.

La Repubblica e Domani 

La testata La Repubblica, parte del gruppo GEDI, quotidiano di riferimento della borghesia progressista, storicamente vicino all’ideologia europeista, ha ricevuto 260.000 euro per il progetto Europa, Italia, un’iniziativa editoriale volta a promuovere «una migliore comprensione dell’azione europea nei territori». Nella pratica, si tratta di articoli celebrativi dei fondi europei, dei progetti PNRR, delle sinergie tra Bruxelles e le regioni. Anche in questo caso, la trasparenza è minima: solo un piccolo logo UE sul banner del progetto, nessuna chiara indicazione che il contenuto sia frutto di una sponsorizzazione istituzionale.

È il turno di Domani, testata fondata da Carlo De Benedetti, oltre ad aver fruito di 100 mila euro dalla Commissione Europea, figura tra i media coinvolti nel progetto European Focus, finanziato con 470.000 euro per la produzione di una newsletter paneuropea volta a «rafforzare il dibattito europeo».

Il Sole 24 Ore

Che dire poi de Il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria e punto di riferimento per il mondo economico e finanziario italiano? Anche qui, è difficile stabilire quanto la narrazione pro-UE sia figlia di una linea culturale autonoma e quanto, invece, sia il frutto dei finanziamenti strutturati ricevuti. Oltre ad aver beneficiato di 1,5 milioni di euro di fondi diretti europei, il progetto La politica di coesione in numeri, premiato con 290.000 euro da Bruxelles, ha portato alla pubblicazione di una lunga serie di articoli, analisi e grafici che esaltano il ruolo dell’Unione Europea nello sviluppo economico delle regioni italiane. Eppure, in nessuno di questi articoli si legge chiaramente che l’intera operazione è sponsorizzata dalla Commissione. Non c’è una nota redazionale, un disclaimer, una separazione tra contenuto editoriale e comunicazione istituzionale. Il risultato? Una propaganda mascherata da informazione tecnico-finanziaria, dove l’UE appare come unica soluzione razionale ai problemi del Paese.

Da citare, inoltre, Linkiesta, partner del progetto Wounds of Europe (programma Stars4Media), in cui si racconta l’integrazione europea attraverso podcast e longform journalism. Questo progetto fa parte delle Journalism Partnerships, un’iniziativa da 50 milioni di euro lanciata nel 2021 per promuovere «valori europei» nei contenuti editoriali.

Un sistema che esclude il dissenso

Il rapporto di Fazi evidenzia un punto cruciale, ovvero che i fondi UE non vengono distribuiti a caso: le testate che promuovono attivamente la visione europeista ricevono finanziamenti, mentre le voci critiche vengono sistematicamente ignorate o escluse. C’è una selezione a monte, per cui accedono più facilmente ai finanziamenti le testate che già mostrano una predisposizione favorevole all’Unione Europea. 

In un Paese dove la libertà di stampa è già fragile, legata a interessi editoriali, pubblicitari e politici, l’intervento dell’UE attraverso fondi selettivi ha prodotto una compressione ulteriore del pluralismo che riguarda anche il nostro Paese. I media italiani interessati da questo sistema – che pontificano sul pericolo della disinformazione on line e impartiscono lezioni di democrazia – non sono più arbitri, ma giocatori schierati, impegnati a difendere il progetto europeo per ragioni finanziarie. L’informazione italiana è diventata un’estensione del potere europeo, funzionale alla costruzione di un consenso artificiale, che inquina il dibattito pubblico.

L’idea moderna di libertà di stampa affonda le sue radici nell’Illuminismo. Per i filosofi del XVIII secolo la circolazione dei giornali era il primo antidoto contro l’arbitrio del potere: uno strumento capace di alimentare il confronto, permettere la formazione dell’opinione pubblica e vigilare sull’operato dei governanti. La stampa assunse così un ruolo politico e culturale, diventando veicolo di idee e di dibattito. In questo solco si inserisce la celebre definizione della stampa come “Quarto potere”. L’espressione, ispirata ai tre poteri teorizzati da Montesquieu (legislativo, esecutivo e giudiziario), sottolinea la funzione dei media come pilastro democratico aggiuntivo, capace di esercitare un controllo costante sul potere politico. La libertà di stampa, dunque, non è un privilegio, ma una necessità per ogni società democratica. 

La libertà di stampa come diritto naturale

Lo sviluppo della tradizione dei media occidentali corre di pari passo con l’evoluzione della democrazia in Europa e negli Stati Uniti. Già i pensatori liberali del XVII e XIX secolo, in contrapposizione alla tradizione monarchica e al diritto divino dei re, rivendicavano la libertà di espressione come “diritto naturale” dell’individuo. In questa prospettiva, la libertà di stampa divenne parte integrante dei diritti fondamentali sanciti dall’ideologia liberale. 

In foto: Jürgen Habermas, filosofo, sociologo, politologo ed epistemologo tedesco

Successivamente, altre correnti hanno sostenuto la stessa tesi su basi diverse: la libertà di espressione venne sempre più intesa come componente essenziale del contratto sociale. Jürgen Habermas, nel 1962, avrebbe concettualizzato questo spazio come “sfera pubblica borghese”: un luogo ideale e aperto in cui i cittadini possono esprimersi, discutere e contribuire al dibattito pubblico senza essere subordinati a logiche di potere o interessi di parte. La Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese consolidarono questa visione, sancendo il legame tra giornalismo e democrazia. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 riconobbe, infatti, la libertà di stampa come diritto fondamentale.  

Il reporter come “watchdog

Lo scandalo Watergate, o semplicemente il Watergate, fu uno scandalo politico scoppiato negli Stati Uniti nel 1972, innescato dalla scoperta di alcune intercettazioni illegali effettuate nel quartier generale del Comitato nazionale democratico, da parte di uomini legati al Partito Repubblicano e in particolare al “Comitato per la rielezione” del presidente Richard Nixon. In foto: il Watergate Complex

Da quel momento, il giornalismo non fu più considerato soltanto cronaca dei fatti, ma spazio di critica e di partecipazione pubblica: un percorso che, nell’Ottocento, portò al giornalismo politico e nel Novecento alla consacrazione del modello investigativo e di inchiesta. Nel XX secolo, infatti, il giornalismo statunitense ha codificato il ruolo del reporter come watchdog, il “cane da guardia” incaricato di vigilare sulle istituzioni e denunciarne gli abusi. Si tratta di un giornalismo investigativo che mira a far emergere responsabilità sistemiche e a stimolare conseguenze politiche e giudiziarie. Tra i casi storici più noti possiamo ricordare il Watergate, i Pentagon Papers e l’Iran-Contra affair. Sebbene il watchdog journalism resti un presidio indispensabile per la democrazia, capace di rivelare ciò che il potere preferirebbe occultare, oggi questo paradigma vive una profonda crisi che si estende ben oltre gli Stati Uniti.

Il potere degli incentivi: da Bill Gates al caso USAID

Nelle democrazie occidentali si deve constatare la trasformazione della stampa da contropotere a cassa di risonanza delle istituzioni e della tecnocrazia. Il meccanismo non si fonda tanto sulla censura diretta, quanto sull’uso sistematico del soft power: una rete di incentivi, finanziamenti, pressioni politiche ed economiche, programmi e piattaforme che orientano l’agenda mediatica e marginalizzano le voci critiche. Un ruolo centrale lo hanno i filantrocapitalisti del calibro di George Soros e Bill Gates, che attraverso le loro fondazioni indirizzano l’agenda mediatica. Secondo un’inchiesta di MintPress News [7], la Bill & Melinda Gates Foundation ha distribuito oltre 319 milioni di dollari a testate come CNN, BBC, The Guardian, Le Monde e Al-Jazeera, oltre che a centri di giornalismo investigativo e associazioni di categoria. La Gates Foundation ha donato in lungo e in largo a fonti accademiche, con almeno 13,6 milioni di dollari destinati alla prestigiosa rivista medica The Lancet. Persino la formazione [7] dei reporter avviene spesso tramite borse di studio finanziate dagli stessi filantrocapitalisti, creando un sistema chiuso in cui media e giornalisti dipendono dagli stessi soggetti. 

Il caso dell’USAID [8], che ha usato programmi di “rafforzamento dei media” come strumenti di influenza politica, mostra quanto queste dinamiche non siano eccezioni. Il risultato è una stampa che rischia di perdere la sua funzione critica, sostituita da un’informazione certificata dall’alto e sempre più allineata ai centri di potere. 

Fact checking: dalla verifica alla certificazione 

In questo scenario ricopre un ruolo fondamentale il fact checking [9]: nato come pratica di verifica dei dati e delle fonti, si è trasformato velocemente in un sistema di  certificazione della verità, che assegna bollini di attendibilità o etichette di falsità con criteri spesso opinabili e soggettivi, con effetti diretti sulla visibilità dei contenuti online. La logica che lo sostiene è paternalistica e l’obiettivo di creare una “informazione certificata” pone le basi per la legittimazione morale della censura. 

Strutture come l’EDMO in Europa o la International Fact-Checking Network a livello globale ricevono finanziamenti da istituzioni pubbliche, fondazioni private e piattaforme digitali, con advisory board [10] in cui siedono esponenti legati [11]a grandi media, Big Tech e fondazioni come la Gates Foundation o la Open Society. Il caso [12]più emblematico è NewsGuard [13], agenzia americana nata nel 2018 e finanziata anche dal Pentagono [14], che valuta i media con indici di “credibilità”. Tra i suoi advisor figurano l’ex direttore della CIA Michael Hayden e l’ex segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen, mentre tra gli investitori c’è il colosso pubblicitario Publicis. Un meccanismo pensato per contrastare le fake news rischia così di diventare un filtro politico e commerciale dell’informazione, penalizzando i media indipendenti e proteggendo le narrazioni mainstream.

Fact checking e pandemia: l’inquisizione digitale

L’avvocato e imprenditore statunitense Hunter Biden, figlio secondogenito dell’ex presidente americano Joe Biden

Durante la pandemia da Covid-19, questa dinamica ha mostrato tutta la sua portata, come testimoniato dai Twitter Files [15] e dai Facebook Files [16]. Il fact checking non si è limitato a correggere errori, ma ha assunto la funzione di filtro preventivo: contenuti divergenti dalla narrativa ufficiale, spesso veri, compresi articoli giornalistici (come lo scoop [17]del New York Post [18]sul laptop [19]di Hunter Biden) sono stati declassati, etichettati come “disinformazione” o rimossi dai social. In molti casi, la stessa categoria di “fake news [16]” è stata usata in modo elastico per bollare opinioni scientifiche minoritarie, ipotesi alternative o critiche politiche. Ne è scaturita una forma di “Inquisizione digitale”: una rete di debunkers e algoritmi che, lungi dal garantire il pluralismo, ha consolidato un monologo informativo, volto a criminalizzare le voci divergenti, alimentando un clima di colpevolizzazione e di conformismo forzato.

Spirale del silenzio e autocensura

Il potere del fact checking non sta solo nelle etichette, ma nell’effetto sociale che produce. Etichettare un contenuto come “falso” o “pericoloso” genera isolamento per chi lo diffonde e induce altri a tacere per timore di subire la stessa delegittimazione. È la cosiddetta “spirale del silenzio”, teoria elaborata da Elisabeth Noelle-Neumann: la percezione che un’opinione sia minoritaria porta gli individui a non esprimerla, rafforzando così l’apparente consenso attorno alla narrativa dominante. Questo meccanismo riduce lo spazio del dibattito pubblico. Invece di discutere e confrontare argomenti, la questione si chiude a monte: un’etichetta di fact checking sancisce cosa è vero e cosa è falso, trasformando la complessità in un verdetto binario.

Da cane da guardia a cane da compagnia

Il giornalismo ha così smarrito la propria vocazione originaria. Non più guardiano che vigila sul potere, ma cane da compagnia che lo rassicura e lo protegge. Le redazioni, impoverite economicamente e pressate dagli sponsor, rinunciano all’inchiesta indipendente per riprodurre comunicati ufficiali o contenuti già filtrati da network istituzionali. Il fact checking, nato come strumento interno al giornalismo, è diventato invece un apparato esterno che certifica quali media e quali notizie siano legittime. 

La parabola che va dall’Illuminismo all’odierno giornalismo certificato segna un arretramento democratico. In nome della lotta alla disinformazione, si sta producendo un’informazione sempre più omogenea, che riduce il pluralismo e trasforma i media in cinghie di trasmissione delle élite. Il soft power si rivela qui più efficace della censura tradizionale: non vieta, ma orienta; non reprime, ma incentiva. In questo modo, la grande promessa della stampa come garanzia di libertà rischia di dissolversi in un paesaggio informativo disciplinato da algoritmi, fact checkers e finanziamenti istituzionali.

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Enrica Perucchietti

Laureata con lode in Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista, scrittrice ed editor. Collabora con diverse testate e canali di informazione indipendente. È autrice di numerosi saggi di successo. Per L’Indipendente cura la rubrica Anti fakenews.