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Vulnerabili e costosi: Paesi europei in fuga dagli F-35 americani, l’Italia ne ha comprati 25

Il programma degli F-35, l’aereo da combattimento di quinta generazione prodotto dalla statunitense Lockheed Martin, continua a dividere gli alleati europei. Negli ultimi mesi, diversi Paesi hanno ridimensionato o abbandonato i loro piani di acquisto, segnalando i costi crescenti e l’eccessiva dipendenza da Washington. L’Italia, invece, ha scelto di muoversi nella direzione opposta, confermando nuove commesse e rafforzando il proprio impegno con l’acquisto di 25 F-35 [1], per una spesa complessiva di 7 miliardi entro il 2035. Nato per sostituire i vecchi caccia F-16 e promettere superiorità tecnologica, l’F-35 si è trasformato in un simbolo di costi fuori controllo, dipendenza strategica dagli Stati Uniti e vulnerabilità operativa. Il disimpegno di alcuni Stati evidenzia vari nodi legati agli F-35: progettati come caccia leggeri e multiuso, si sono trasformati in velivoli pesanti e onerosi, con un prezzo medio superiore ai 100 milioni di dollari ciascuno e costi di gestione che il Pentagono stima in oltre 1.450 miliardi di dollari nel lungo periodo.

Il Portogallo [2] ha rinunciato a prendere parte al programma, dichiarando apertamente che i caccia lo avrebbero reso troppo dipendente da Washington. La manutenzione, gli aggiornamenti software e la fornitura dei pezzi di ricambio restano, infatti, sotto il controllo esclusivo degli Stati Uniti e una rottura della catena di approvvigionamento significherebbe paralizzare l’intera flotta. Un’analisi che ha trovato eco anche in altri Paesi, preoccupati di affidare a una potenza esterna non solo la logistica, ma persino la possibilità di attivare o disattivare le funzioni del velivolo. Anche la Svizzera [3], dopo il referendum che nel 2020 ha approvato l’acquisto di 36 F-35, si trova ora a fronteggiare un imprevisto aumento dei costi fino a 1,3 miliardi di dollari in più. Il governo difende l’impegno preso, ma parallelamente investe nello sviluppo di un’industria bellica europea, consapevole che legarsi a un solo fornitore extraeuropeo rappresenta un rischio strategico. Il caso svizzero evidenzia la tensione tra la volontà politica di garantire la sicurezza e la crescente insofferenza dell’opinione pubblica verso contratti miliardari stipulati con un partner così ingombrante. La Spagna [4] ha scelto una via ancora più netta, cancellando un programma da circa 6,25 miliardi di euro. Il motivo ufficiale riguarda la necessità di contenere le spese, ma il dibattito interno ha evidenziato anche la volontà di non subordinare le proprie capacità militari a un sistema interamente americano. A Madrid prevale oggi la linea dell’autonomia strategica europea, che punta a rafforzare progetti comuni (Eurofighter e il Programma FCAS, il caccia di sesta generazione europeo) e ridurre la dipendenza da Washington. La Danimarca [5] si trova in una posizione ambigua. Ha già ricevuto 17 dei 27 aerei ordinati, ma all’interno delle forze armate e nei servizi di intelligence serpeggia il timore che la completa dipendenza tecnica dagli Stati Uniti possa rivelarsi un boomerang. Uscendo dai confini europei, anche il Canada [6], inizialmente tra i partner più entusiasti, ha cominciato a rivalutare la propria posizione. L’acquisto di 88 aerei, di cui 16 già consegnati, ha visto i costi crescere dai 19 miliardi di dollari previsti a oltre 28 miliardi, con un’aggiunta di 5,5 miliardi destinati a infrastrutture e armamenti. Le tensioni politiche con gli Stati Uniti durante l’era Trump hanno accentuato la percezione di vulnerabilità: pur non essendosi formalmente ritirato, Ottawa discute apertamente se sia ancora sostenibile legarsi a un programma che rischia di divorare il bilancio della difesa per decenni.

In questo scenario di ritirate e ripensamenti, l’Italia rappresenta un’eccezione. Roma ha già acquistato 25 F-35 [1], pagandoli circa 280 milioni di euro ciascuno considerando software, sensori e pacchetti di supporto, vale a dire più del triplo del prezzo ufficiale. Eppure, il governo ha deciso di proseguire. Secondo il Documento programmatico pluriennale della Difesa 2024-2026, l’Italia spenderà [7] altri 7 miliardi di euro entro il 2035 per acquisire 15 F-35A a decollo convenzionale (portando così il totale a 75) e 10 F-35B a decollo e atterraggio verticale (portando a 40 il numero di velivoli di questo tipo a disposizione). La spesa comprende motori, equipaggiamenti, aggiornamenti, supporto logistico e interventi infrastrutturali come l’adeguamento della nave Trieste affinché possa operare con i nuovi velivoli e della base di Grottaglie. Così la flotta nazionale passerà da 90 a 115 velivoli, avvicinandosi all’obiettivo storico dei 131 esemplari fissato già nel 2009. Considerate le spese già effettuate negli anni, la spesa totale per le casse dello Stato raggiunge i 25 miliardi di euro. Da un lato, il governo rivendica la necessità di mantenere un rapporto privilegiato con Washington e di garantire la modernizzazione delle forze armate, dall’altro, emergono critiche per i costi fuori scala, aggravati da un contesto economico segnato da tagli e ristrettezze in altri settori. Non mancano neppure i dubbi operativi: gli stessi vertici militari statunitensi ne hanno ammesso i limiti: il generale Charles Brown Jr. [8], Capo di Stato maggiore dell’aeronautica, ha definito gli F-35 aerei «costosi e inaffidabili», zavorrati da una tecnologia complessa soggetta a «frequenti bug». L’Europa appare, quindi, divisa tra chi cerca di ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti e chi, come l’Italia, consolida la sua fedeltà al programma, accettando l’acquisto dei caccia multiruolo di quinta generazione come prezzo inevitabile per rimanere ancorata all’ombrello atlantico.

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Enrica Perucchietti

Laureata con lode in Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista, scrittrice ed editor. Collabora con diverse testate e canali di informazione indipendente. È autrice di numerosi saggi di successo. Per L’Indipendente cura la rubrica Anti fakenews.