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Dietro i riflettori del lusso, la vera moda italiana è quasi scomparsa

Il Made in Italy se la sta passando male. Talmente male che il presidente della Camera della Moda, Carlo Capasa, alla presentazione dei Sustainable Fashion Awards, che andranno in scena il prossimo 27 settembre alla Scala di Milano, ha affermato: «È in atto una campagna contro il Made in Italy che sta spingendo l’esportazione cinese a basso costo nel nostro Paese. Demonizzare il lusso e i suoi prezzi è un attacco al sistema Italia e al valore della filiera». Sindrome del complotto o no, gli ultimi fatti di cronaca hanno evidenziato che dei problemi all’interno del sistema ci sono, a cominciare dai frequenti casi di sfruttamento [1] riportati dalle cronache giudiziarie. per cui è urgente mettere la verità sul tavolo, prendere atto dello stato di salute attuale e correre ai ripari concreti. Il Made in Italy non è solo un’etichetta di provenienza apposta sui capi prodotti, in toto o in parte, nel nostro Paese. Il Made in Italy, dal dopoguerra in poi (fino ad allora erano i couturier francesi a essere considerati il massimo in fatto di moda), è diventato una garanzia di stile, dove il design studiato dei primi stilisti, unito all’ottima qualità dei materiali e alla sapiente costruzione dei capi, ha fatto decollare la moda italiana oltreoceano, rendendola poi famosa in tutto il mondo.

In mezzo allo scomodo New Look di Dior, negli anni ’50 i designer e le case di moda italiane si sono affermati con creazioni allora rivoluzionarie e innovative: forme semplici, comode, ottima vestibilità e qualità superiore dei tessuti realizzati in loco (ricordiamo il distretto pratese, quello di Biella per le lane e Como per la seta, tra gli altri).

La moda italiana, nel tempo, è diventata sempre più popolare tra le star di Hollywood e le celebrità: basta ricordare l’abito di Valentino indossato da Jacqueline Kennedy al matrimonio con Onassis, le scarpe rosse di Salvatore Ferragamo realizzate per Marilyn Monroe e il Borsalino di Michael Jackson…

Il Made in Italy non è mai stato solo una denominazione del Paese di origine: era sinonimo di stile e qualità. E di un saper fare, prettamente artigianale, fortemente radicato nella nostra storia e nella nostra cultura. Disegnatori e stilisti, sì, ma anche tessitori, ricamatori, pellettieri e maestri artigiani dalle mani d’oro. Tecnici specializzati, architetti di quelle creazioni che hanno fatto il giro del mondo, e che oggi è difficilissimo trovare (complice una narrazione e un’offerta formativa incentrata sui direttori creativi a discapito di competenze e professioni tecniche).

Così com’è altrettanto difficile trovare un Made in Italy fatto 100% in Italia, in condizioni di lavoro eque e giuste.

«Il comparto impiega 600mila lavoratori, di cui solo 30mila irregolari secondo i dati Istat. Siamo tra i settori con l’incidenza più bassa. La vera filiera illegale è molto limitata. I fornitori che non rispettano le regole rappresentano meno del 2% della produzione totale di un brand», continua Capasa.

Un 2% — quello uscito allo scoperto al momento attuale — che ha scoperchiato un vaso di Pandora e che sta mettendo in discussione un intero settore produttivo. Un 2% che ha svelato una tendenza ormai in voga da decenni: pagare meno per garantire più margini ai brand in questione.

Marchi che, nonostante portino ancora i loro nomi originari, sono stati inglobati o venduti a grandi holding straniere (che sono legate ai profitti più che ai prodotti): sono nell’orbita LVMH Pucci, Fendi, Bulgari e le essenze di Acqua di Parma; altro padrone del lusso mondiale, Kering, ha in scuderia Gucci, Bottega Veneta, Brioni e Pomellato; Valentino è nelle mani del fondo del Qatar Mayhoola; Krizia è stata comprata dai cinesi di Marisfrolg e anche la moda 4.0 è emigrata, da quando Federico Marchetti ha venduto Yoox-Net-à-Porter agli svizzeri di Richemont. E si potrebbe andare ancora avanti…

Viene dunque da chiedersi: da cosa è costituito il settore tessile/moda in Italia, ad oggi?
Il settore manifatturiero (produzione tessile, confezione ed accessori – dati Infocamere al 31 dicembre 2024) è costituito da circa 68.000 imprese; l’83% sono micro-imprese fino a 9 dipendenti; un 15% è rappresentato da piccole imprese; l’1,7% sono medie imprese (dai 50 ai 149 dipendenti, che arrivano a fatturare anche 50 milioni di euro) e le grandi imprese rappresentano lo 0,3% (circa 143 in tutta Italia).

Dati alla mano, se parliamo di Made in Italy oggi, dobbiamo parlare di micro-imprese. Eppure, gli sguardi di chi propone leggi e riforme sono sempre orientati alla salvaguardia e tutela di quello 0,3% (nonostante tra il 2021 e il 2024 l’Italia abbia perso 9.000 imprese – circa 3.000 all’anno), ignorando completamente le esigenze di quel 98% che, se incentivato e protetto, potrebbe riportare in auge un intero comparto in maniera trasparente e sostenibile.

Certificare la filiera, sapere dove/quando e come vengono prodotti i capi, organizzare verifiche preventive in modo da esonerare il titolare del marchio in caso di subappalti illeciti. Sono queste le misure ipotizzate dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, che più che a una serie di protocolli, sta promuovendo una normativa vera e propria che possa garantire trasparenza e certificare interamente la catena produttiva.

Ad oggi esiste un commissario che viene insediato per aumentare i controlli; con la Legge sulla Legalità, tutta la filiera dovrà essere garantita. Questa misura, unita all’impegno europeo per temi come l’eco-design, il passaporto digitale [2] e il fine vita dei prodotti (per cui è già stato fondato un consorzio), rappresenta alcune delle attività intraprese per sostenere il Made in Italy e riportarlo in auge con un certo stile, che non sta più nei tagli e nei colori, ma nel rispetto e nell’etica.

Il cammino si prospetta lungo e a tratti utopico, ma o così o tra vent’anni il Made in Italy, e tutto ciò che rappresenta, potrebbe sparire del tutto.

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Marina Savarese

Stilista, docente di moda e comunicazione, scrittrice e co-fondatrice del portale Sfashion-net, dedicato alla moda slow. Per L’Indipendente si occupa di consumo e moda critica.