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Da ieri è ufficiale: l’Italia usa il 41 bis come forma di tortura politica

Il dovere etico di giornalisti ci impone di tornare su di un tema che, va constatato, interessa poco all’opinione pubblica. Eravamo stati il primo giornale a parlare del caso Cospito [1], proprio perché in esso avevamo intravisto il sintomo di una persecuzione politica. Avevamo trattato la questione molto prima che si trasformasse in un argomento da salotto televisivo, destinato a stancare presto l’audience dopo un breve periodo di sovraesposizione mediatica. I palinsesti hanno colmato il vuoto dei propri momenti di magra con opinionisti, politici e giuristi che dicessero la propria sul caso, poi più nulla. Il risultato è che ieri, di fronte a una sentenza dalla portata enorme, nessun media ha prestato attenzione alla cosa. E i lettori, verosimilmente stanchi di aver sentito questo nome fin troppe volte, non vi presteranno più orecchio.

Tuttavia, l’enormità delle implicazioni della sentenza di ieri è innegabile, ed è necessario parlarne. Perché ufficialmente, da ieri, il 41 bis (definito da Amnesty nel 2003 come trattamento in alcuni casi “crudele, inumano e degradante”) può essere usato in Italia non come strumento della legislazione antimafia, ma come regime carcerario di punizione politica. La sensazione c’era già, ma ora possiamo scriverlo senza timore di smentita. Anzi, sfidiamo chi la pensa diversamente a smentirci al riguardo. Per ben due volte la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (DNAA) aveva infatti decretato che non sussistessero ragioni per le quali Alfredo Cospito dovesse rimanere al 41 bis. Tali pareri, tuttavia, sono stati del tutto ignorati dai giudici e dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Per ben due volte. Dunque, se la valutazione dei massimi esperti in materia viene del tutto ignorata, resta una sola interpretazione dei fatti: si è voluta imporre a Cospito una punizione politica esemplare.

In cosa consiste questa punizione? Vediamo di rinfrescare un po’ la memoria ai lettori. Il regime di 41 bis prevede la segregazione di una persona in un cubicolo di cemento che se va bene misura 3 metri per 2, se va male 2,5 per 1,5. L’unica finestra è posta abbastanza in alto per impedire di guardare fuori ed il triplice livello di sbarre lascia passare poca aria e poca luce. In quel cubicolo tra i 4 e i 6 metri quadrati vi devono stare un letto, un lavandino, una televisione e un cesso alla turca, con tutto il suo fetore. Vi si trascorrono 22 ore al giorno, senza libri né riviste (a meno di specifiche autorizzazioni), niente foto alle pareti, col divieto di parlare anche da soli. Niente carta e penna a meno che non sia il direttore a concederne l’uso, niente dispositivi elettronici. Si hanno a disposizione due ore d’aria, da trascorrere in un cortiletto di dimensioni analoghe a quelle della cella, circondato da mura alte oltre 5 metri. Un solo colloquio al mese, della durata di un’ora. Se si vuole telefonare a qualcuno, è necessario rinunciare al colloquio.

La sentenza di ieri sancisce che tutto questo possa essere inflitto per fini politici. Ma, d’altronde, il caso di Alfredo Cospito era politico fin dall’inizio. Non può non essere così, se si pensa che gli è stata inflitta una condanna a 23 anni per aver piazzato una bomba a basso potenziale in un punto scelto proprio perché non vi transitava nessuno, di notte, senza causare il ferimento di alcuno. Di fatto, anche i danni erano stati pressoché nulli, dal momento che ad essere danneggiati erano stati due cassonetti della spazzatura. Un atto dimostrativo, incasellabile tuttavia dai giudici nell’ambito del reato di strage contro la sicurezza dello Stato. Nemmeno gli attentati di Capaci e di via D’Amelio sono stati classificati come tali. E gli è pure andata bene, perché ha corso il rischio di essere condannato all’ergastolo ostativo.

Per protestare contro il regime di carcere duro che gli era stato inflitto, Cospito ha portato avanti per sei mesi uno sciopero della fame che lo ha ridotto in fin di vita. Proprio questo è stato usato come pretesto fondante della condanna di ieri. Con incredibili voli pindarici carpiati e qualche spettacolare piroetta, i giudici del Tribunale di Sorveglianza hanno decretato che proprio il “clamoroso” digiuno portato avanti dall’anarchico ne sancisce la pericolosità. In sostanza: se protestate in maniera violenta ne pagherete le conseguenze, se lo fate in maniera pacifica pure (ne sanno qualcosa gli studenti [2] che sono scesi in piazza a Torino o i militanti [3] del movimento No TAV). Anche se lo fate utilizzando l’unica cosa che vi resta dopo che tutto vi è stato tolto, ovvero il vostro corpo. Di fatto, è quello che le persone private della libertà personale fanno di continuo, ingoiando batterie, tagliandosi le braccia o impiccandosi alle sbarre (un metro di giudizio abbastanza impietoso di quella che è la situazione nelle carceri del nostro Paese).

Abbiamo scritto queste righe perché la speranza è che un’opinione pubblica ormai annoiata dal tema comprenda la portata di quanto sta accadendo non solo a Cospito ma, più in generale, alla nostra società. Perché quanto accaduto è sintomo del fatto che le fondamenta democratiche dello Stato stanno pericolosamente barcollando.