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Quasi la metà delle specie animali è in rapido declino demografico

Una nuova ricerca ha rilevato come i cali demografici tra le popolazioni animali sono più preoccupanti di quanto si pensasse e sono “tra le sindromi più allarmanti dell’impatto umano”. Delle oltre 71.000 specie analizzate, tra cui mammiferi, uccelli, rettili, anfibi, insetti e pesci, il 48% sta diminuendo in numero, il 49% è stabile e solo nel 3% dei casi la popolazione è in crescita. Il coautore Daniel Picheira Donoso, della Queen’s University di Belfast, ha affermato che i risultati sono «un’allarme drastico». La causa principale è la distruzione di paesaggi selvaggi per far posto a fattorie, paesi, città e strade che, insieme al cambiamento climatico, stanno portando al declino delle specie.

Lo stato della fauna selvatica è solitamente monitorato dalla Lista Rossa dell’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura), che classifica le specie in base al rischio d’estinzione e alle minacce di vulnerabilità. Nonostante l’Unione affermi [1] che il 28% delle specie è minacciato, lo studio [2] ha rilevato che il 33% delle specie “non minacciate” sta in realtà subendo un declino della popolazione, che potrebbe portare ad un successivo rischio d’estinzione. Craig Hilton-Taylor, responsabile della Lista Rossa dell’IUCN, ha dichiarato [3] alla CNN che si tratta di un calcolo meno preciso rispetto a quello dell’Unione ma che è comunque d’accordo con le preoccupazioni legate al declino delle specie.

Dal punto di vista geografico, il calo tende a concentrarsi ai tropici e tra i motivi ci sarebbe la maggiore sensibilità degli animali ai rapidi cambiamenti delle temperature ambientali. I più colpiti sono gli anfibi e numerose specie rischiano di avviare un effetto a catena che rischia di danneggiare gravemente l’ecosistema: per esempio, la caccia eccessiva alle lontre di mare ha comportato un incremento sproporzionato di ricci di mare, mangiatori di alghe, che hanno decimato le foreste di alghe nel Mare di Bering, portando all’estinzione della mucca di mare di Steller, la quale si cibava di alghe.

Secondo un rapporto [4] dell’Agenzia europea dell’ambiente sul periodo 2013-2018, nel territorio dell’Unione Europea l’81% degli habitat naturali sono in uno stato di conservazione “sfavorevole” e secondo un rapporto [5] del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente pubblicato nel 2021, attualmente il mondo protegge solo circa il 17% delle terre e delle acque interne e meno dell’8% delle aree marine e costiere. Una soluzione potrebbe risiedere nell’accordo storico raggiunto il 19 dicembre 2022 nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità (COP15) dai rappresentanti di 188 governi: il Global Biodiversity Framework. Gli obiettivi sono cercare di migliorare la conservazione degli habitat, ripristinare gli ecosistemi e proteggere i diritti degli indigeni. Tuttavia, gli esperti dell’IUCN hanno affermato che gli questi obiettivi sono solo il minimo a cui i politici dovrebbero puntare.

L’essere umano ha già dimostrato [6] più volte [7] di saper rimediare al rischio d’estinzione di diverse specie. La sfida, questa volta, è riuscire ad intervenire a tutela degli animali ancora prima del campanello d’allarme.

[di Roberto Demaio]