- L'INDIPENDENTE - https://www.lindipendente.online -

Il governo approva il decreto 1 maggio: trionfa la precarietà

Secondo l’articolo 1 della Costituzione, “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Un lavoro che negli ultimi anni ha indossato sempre più i panni della precarietà e si è allontanato dagli standard di dignità. Il governo più a destra della storia repubblicana, nel giorno in cui si celebrava la Festa dei lavoratori, ha portato avanti quel processo di svalorizzazione della condizione lavorativa alimentato in Italia da governi di tutti i colori, anche quelli di “sinistra”, o presunta tale. Durante le campagne elettorali del nuovo millennio, Silvio Berlusconi promise più volte l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che tutelava i dipendenti dall’essere licenziati senza una giusta causa. Un obiettivo sì raggiunto ma dal governo di centrosinistra di Matteo Renzi, dopo che l’esecutivo tecnico di Mario Monti aveva iniziato a intaccare la norma. Con il nuovo decreto-legge, Palazzo Chigi ha confermato [1] i dettagli dell’Assegno di Inclusione e dello Strumento di attivazione, le misure che sostituiranno il reddito di cittadinanza, oltre che del nuovo taglio al cuneo fiscale, che sarà in vigore soltanto per pochi mesi.

In campagna elettorale, la coalizione di destra formata da Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi moderati aveva giurato battaglia al reddito di cittadinanza, poiché “allontanava dal lavoro” vista la concorrenza a quei salari – gli unici – che non crescono e addirittura diminuiscono in Europa dal 1990. Secondo l’esecutivo, la soluzione non è migliorare le condizioni lavorative, tantomeno [2] adeguare gli stipendi all’inflazione che nell’ultimo anno ha ridotto all’osso il potere di acquisto delle famiglie e ha bruciato 20 miliardi di euro di risparmi. La soluzione, dettagliata nel decreto-legge approvato oggi, è piuttosto eliminare il reddito di cittadinanza, sostituendolo nel 2024 con due misure: l’Assegno di Inclusione, per cui il governo preventiva una spesa di 5,4 miliardi di euro nel 2024, e lo Strumento di attivazione, che comporterà costi più ridotti (circa 2 miliardi di euro).

[3]

La prima è destinata alle famiglie con almeno un componente minorenne, ultrasessantenne o disabile. “I nuclei familiari devono risultare, al momento della presentazione della richiesta e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in possesso di alcuni requisiti”, tra cui risiedere da almeno cinque anni in Italia e avere un valore dell’ISEE non superiore a 9.360 euro. Il sussidio sarà pari a 480 euro, a cui potranno aggiungersi ulteriori 280 euro mensili destinati al pagamento dell’affitto. Il beneficio “è erogato mensilmente per un periodo continuativo non superiore a diciotto mesi e può essere rinnovato, previa sospensione di un mese, per periodi ulteriori di dodici mesi”, si legge nel comunicato stampa di Palazzo Chigi. Ciò significa che allo scadere dei vari periodi di rinnovo, le famiglie dovranno fare a meno di una mensilità dell’Assegno di Inclusione. Per i datori di lavoro privati che assumeranno i beneficiari andrà invece l’esonero del 100% dei contributi previdenziali, nel limite di 8mila euro annui (che diventano 4mila in caso di contratti a tempo determinato o stagionali).

I nuclei familiari che non rientrano tra i parametri dell’Assegno di Inclusione, i cosiddetti “occupabili”, potranno richiedere l’accesso allo Strumento di attivazione: un assegno dall’importo massimo di 350 euro mensili, dalla durata non rinnovabile di un anno, erogabili se il beneficiario si affida a un centro per l’impiego per trovare lavoro e nel frattempo accetta di prendere parte ad attività formative o progetti utili alla collettività. Il sussidio decadrà al primo rifiuto di offerta di lavoro “congrua”, cioè qualsiasi impiego disponibile “nell’intero territorio nazionale” a tempo indeterminato o determinato, a patto che superi i dodici mesi. Per i lavori inferiori a tale soglia, l’obbligo di accettazione si ridurrà agli impieghi inferiori agli 80 chilometri di distanza dal domicilio del richiedente. In ogni caso, la retribuzione non dovrà essere inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi, una situazione che spesso genera conflitti con il concetto di dignità lavorativa, come emerso in una recente sentenza [4] del giudice del lavoro di Milano, Tullio Perillo.

Un disegno chiaro, che ricalca i segni della precarietà. L’obiettivo non è creare lavoro nei luoghi ad alta disoccupazione, ma spopolarli (per sempre o a “tempo determinato”), mettendo una pezza al carente sistema produttivo italiano e favorendo imprenditori che hanno bisogno di manodopera temporanea. A mancare è la visione programmatica, come dimostra l’allargatura delle maglie del lavoro a termine e dunque precario, nonostante le richieste dei sindacati. Con il nuovo decreto-legge, per le imprese sarà infatti più semplice assumere un lavoratore a tempo determinato, alla luce dell’alleggerimento delle motivazioni che giustificano questa tipologia di contratto. In nome della provvisorietà, verrà rafforzato da luglio a dicembre il taglio al cuneo fiscale per i lavoratori con un reddito lordo annuo fino a 35mila euro, la stessa platea che beneficia da gennaio di un’analoga agevolazione (prima del decreto era di 2 punti per i redditi fino a 35mila euro e 3 per quelli fino a 25mila). Per i prossimi sei mesi si stima, in media, un aumento netto in busta paga dai 30 euro attuali ai circa cento euro mensili. «È incredibile come possano esserci polemiche dopo un provvedimento che ha messo soldi in più nelle tasche degli italiani. Abbiamo raddoppiato e triplicato il taglio al cuneo fiscale. Per noi questa è la priorità», ha commentato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha rincarato la dose definendo l’intervento come «il taglio più importante degli ultimi decenni». Nessuna dichiarazione sulla temporaneità della misura, che per essere prorogata nel 2024 necessiterebbe di più di 10 miliardi di euro. Un impegno improbabile, anche alla luce della direttrice tracciata [2] nel DEF, ovvero la riduzione della spesa pubblica, e dal risparmio inesistente che il governo intendeva inizialmente trarre dall’abolizione del reddito di cittadinanza (le due nuove misure costeranno quanto il primo anno di reddito). Le associazioni sindacali hanno proposto di rendere strutturale il taglio al cuneo fiscale finanziandolo con la tassazione agli extraprofitti di banche e multinazionali: un’utopia [5] già col precedente governo, quello “dei migliori”, che continuerà a restare tale con la maggioranza più a destra della storia repubblicana.

Nei confronti delle scelte dell’esecutivo si prospetta una reazione blanda da parte dell’opposizione e dei sindacati, i quali hanno protestato contro «le misure di propaganda che alimentano il precariato», ma senza senza esagerare: per il mese di maggio sono state annunciate tre manifestazioni a Bologna, Milano e Napoli, lontane per il momento dallo sciopero generale visto che CGIL e UIL non sono riusciti a coinvolgere la CISL, che continua con le aperture di credito nei confronti dell’esecutivo. In Germania si è battuta una strada diversa e, dopo diverse manifestazioni e la mobilitazione generale [6] dello scorso marzo, i sindacati hanno ottenuto [7] per circa 2,5 milioni di lavoratori l’adeguamento salariale all’inflazione.

[8]
Adriano Olivetti, proprietario dell’omonima azienda fino al 1960.

«La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica», era solito affermare Adriano Olivetti, l’imprenditore che il secolo scorso ha intuito come il benessere del lavoratore, la presenza di tutele, la produttività e la qualità del lavoro andassero di pari passo. Olivetti ha infatti creato un imponente sistema di servizi sociali per i lavoratori, che comprendeva quartieri residenziali, ambulatori medici, asili, mensa, biblioteca e cinema gratuiti, a cui si aggiungevano convenzioni con diverse attività esterne, l’assenza di divisione netta tra operai e ingegneri e la riduzione delle ore della giornata lavorativa mantenendo invariato il salario. Ne Il genocidio invisibile, lo sceneggiatore Silvano Agosti [9] riporta un dialogo con un industriale del tondino, proprietario di un’immensa acciaieria a Brescia, un certo “Busi”. Lo scrittore gli chiede se è a conoscenza del fatto che una giornata lavorativa più corta farebbe rendere in modo maggiore gli operai, «con meno errori, meno incidenti, meno infiacchimento dei ritmi e maggiore entusiasmo produttivo». «Sicuramente» risponde lui, «ma non sarebbero più operai. Sarebbero degli esseri umani, con tutto ciò che ne consegue».

[di Salvatore Toscano]