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Lo Zimbabwe ha detto basta al saccheggio neocoloniale del Litio

Lo Stato africano dello Zimbabwe ha deciso di riprendere il controllo della propria economia e vietare tutte le esportazioni di litio dal Paese. L’intenzione del governo è investire nella possibilità di trasformare il minerale direttamente nel territorio nazionale invece che esportarlo come minerale grezzo, dal momento che questa pratica, denuncia il governo, ha già causato alle casse dello Stato una perdita da 1,7 miliardi di euro. Trattandosi di uno delle componenti fondamentali per la fabbricazione di batterie elettroniche per automobili, smartphone e computer, il litio è un elemento fondamentale della transizione energetica. Ribattezzato per questo motivo “oro bianco”, il suo prezzo ha subito un’impennata del 1100% solamente negli ultimi due anni.

Tra i Paesi africani lo Zimbabwe è quello che ne possiede la quantità maggiore: secondo il governo, potrebbe arrivare [1] a soddisfare un quinto del fabbisogno mondiale. Tale ricchezza di risorse ha attirato l’attenzione delle multinazionali estere, che ogni anno importano il minerale grezzo per poterlo processare nei propri stabilimenti. Il governo ha deciso di invertire questa tendenza, dichiarando l’intenzione di avviare una propria industria di batterie, oltre ad imporre un maggiore controllo sul contrabbando illegale lungo i confini del Paese – diretto in particolare [2] verso il Sudafrica e gli Emirati Arabi. «Nessun minerale di litio, o litio non arricchito, potrà essere esportato dallo Zimbabwe verso un altro Paese se non dietro autorizzazione scritta del ministro» ha decretato la circolare del ministro delle Miniere, Winston Chitando. In questo modo nel Paese potrebbe nasce una filiera industriale completa, dall’estrazione alla raffinazione e alla commercializzazione del prodotto finito, con il conseguente formarsi di posti di lavoro e arricchimento dell’economia locale. «Se continuiamo a esportare litio grezzo non andremo da nessuna parte. Vogliamo che le batterie al litio vengano sviluppate nel Paese» ha dichiarato [2] il viceministro delle Miniere Polite Kambamura,«Lo abbiamo fatto in buona fede per la crescita dell’industria».

Le aziende presenti in Zimbabwe, per la maggior parte cinesi, dovranno così iniziare ad aprire stabilimenti di raffinazione nel Paese o riuscire ad ottenere dal governo l’autorizzazione alle esportazioni per motivi eccezionali. Secondo alcune stime [3], tuttavia, il processo di apertura dell’intera supply chain in loco potrebbe costare centinaia di milioni di dollari e richiedere almeno due o tre anni per l’entrata in funzione, oltre a comportare un aumento delle risorse tanto del litio quanto degli altri metalli necessari per la transizione energetica (tra i quali il cobalto), soprattutto se altri Paesi dovessero seguire l’esempio dello Zimbabwe. E non si può certo dire che si tratti di un caso isolato: nella primavera dello scorso anno il Messico [4] aveva deciso anch’esso di nazionalizzare il litio e affidarne la lavorazione ad un’impresa pubblica, non senza destare le proteste degli investitori privati.

Il fine, tanto del Messico quanto dello Zimbabwe e di tutti gli altri Paesi che puntano alla nazionalizzazione delle proprie ricchezze (è il caso, per esempio, anche dell’Indonesia con il nichel) è quello di impedirne lo sfruttamento da parte delle grandi multinazionali straniere, le quali acquistano i materiali grezzi a prezzi miseri per esportarne la lavorazione, non creando alcuna ricchezza nel Paese e creando, in alcuni casi, devastazioni ambientali irreparabili. È il caso, per esempio, di quanto sta accadendo in Brasile [5], dove il miliardario Elon Musk ha siglato un accordo con la Vale S.A. per la fornitura a lungo termine di nichel a Tesla. Le attività estrattive, tuttavia, hanno causato la contaminazione e distruzione del territorio, oltre all’avvelenamento delle popolazioni locali, pagando così un prezzo altissimo senza alcun tipo di compensazione.

[di Valeria Casolaro]