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Nei campi italiani un lavoratore su tre è in mano al caporalato

Sul nostro territorio lavorare nei campi significa ancora correre un alto rischio di trovarsi fra le mani di un caporale. Lo dice il VI Rapporto agromafie e caporalato [1], realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, secondo cui su 3 lavoratori agricoli, almeno 1 è irregolare. Per un totale, grossomodo, di circa 230mila addetti coinvolti (di cui 55mila donne, pagate ancora meno degli uomini e spesso vittime anche di abusi fisici), sfruttati per 300 milioni di ore di lavoro su circa 820 milioni accumulate in generale nel 2021. La filiera si muove più o meno così: “Pezzi o interi settori di produzione vengono ‘delegati’ ai caporali, attraverso la creazione di cooperative spurie e l’apertura di finte partite Iva, strumenti attraverso i quali i caporali, a loro volta, ‘subappaltano’ pezzi di produzione, irrimediabilmente incardinata sullo sfruttamento e l’intermediazione illecita di manodopera”, spesso e volentieri straniera, non residente in Italia. Tale pratica, secondo il rapporto, si concentra in particolare nelle regioni del centro-sud, tra cui Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio, dove gli irregolari superano il 40%. Tuttavia non ne è esente neppure il Nord: anche in questo caso gli occupati irregolari sfiorano il 20-30% del totale. Qualche mese fa vi avevamo raccontato [2] che in Basilicata sono stati trovati a lavorare in «condizioni inumane» all’incirca 2 mila i braccianti, soprattutto nella zona del metapontino e nel Vulture Melfese. A denunciarlo era stata Angela Bitonti, avvocato e presidente dell’Associazione diritti umani (ADU), la quale, insieme alla vicepresidente Sonia Sommacal, aveva deciso di presentare ricorso alla Corte europea per i diritti umani (CEDU) per denunciare la condizione di abbandono istituzionale nella quale vertono i lavoratori.

I braccianti «si stanziano in casolari abbandonati, specialmente nel ghetto di Boreano, dove ci sono i casolari della riforma agraria abbandonati: vivono senza luce, senza acqua, senza porte né finestre, senza arredi, con i materassi luridi appoggiati sui pavimenti, con fornelli e bombole del gas molto pericolose, qualche barile d’acqua che trasportano dalle fontane e soprattutto cumuli di spazzatura adiacenti ai casolari. Parliamo di tonnellate di rifiuti, vere e proprie discariche a cielo aperto, che insistono su territori comunali e che nessuno si preoccupa di smaltire, mettendo così a rischio la salute di queste persone, ma anche dei cittadini». Questa la denuncia fatta a Redattore Sociale [3].

Com’è possibile che nel 2022 si verifichino ancora condizioni lavorative come queste? In realtà, parlando di caporalato oggi –  cioè lo sfruttamento dei lavoratori irregolari, prevalentemente nel settore agricolo -, va fatta una precisazione: «Lo sfruttamento lavorativo viene perpetrato attraverso nuovi e più complessi meccanismi che vedono il coinvolgimento di attori qualificati (i cosiddetti “colletti bianchi”) ed in generale figure in grado di mascherare l’illegalità attraverso un ‘gioco di scatole cinesi’, che rende ancor più complicata l’individuazione del fenomeno”, hanno spiegato [4] Carlo De Gregorio e Annalisa Giordano, curatori del rapporto. I caporali, ad esempio, si servono di contratti di lavoro solo in apparenza conformi agli standard stabiliti dalla legge. La realtà è che subentrano degli accordi verbali forzati per cui salario, condizioni lavorative e orari non corrispondono affatto a quanto stabilito nei documenti scritti. Motivo per cui, pur avendo un’occupazione spesso a tempo pieno, molti individui impiegati in questo settore hanno un reddito al di sotto dei valori medi. È questo quello che viene definito “nuovo caporalato” o caporalato industriale”, un sistema che, tra le altre cose, si trascina dietro migliaia di euro di evasione ai danni dello Stato. Una situazione che sulle spalle dei lavoratori stranieri, per cui avere un contratto di lavoro è importante per ottenere o rinnovare il diritto a rimanere sul territorio, diventa un macigno ancora più pesante da sopportare.

L’Osservatorio dice che fra le 438 inchieste avviate tra il 2017 e il 2021 per motivi di sfruttamento lavorativo, quasi la metà hanno coinvolto proprio il settore primario. Si tratta tuttavia di un fenomeno talmente diffuso da coinvolgere diversi ambiti, da quello ospedaliero a quello della ristorazione. In altre parole, il caporalato c’è ovunque e c’è soprattutto dove non si vede. Per questo è necessario mettere in campo delle leggi specifiche, pensate ad hoc. La 199/2016 [5], ad esempio, con le sue “disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura” ha introdotto delle misure indirizzate a tutelare i lavoratori stagionali in agricoltura, modificando il quadro normativo penale in quel momento in vigore. Come spiega Openpolis [6], tra le varie novità sono state introdotte “la sanzionabilità del datore di lavoro, l’attenuante in caso di sua collaborazione con le autorità, l’arresto obbligatorio in caso di flagranza di reato e il rafforzamento dell’istituto della confisca”. Oltre alla normativa, sono stati varati poi una serie di piani che in aggiunta s’impegnano a tutelare le vittime e aiutarle a reinserirsi nel modo corretto nel mondo del lavoro. «Siamo rimasti impressionati dalla situazione di sfruttamento dei lavoratori che esiste in alcune zone, ancor più perché ci troviamo in un paese europeo con normative avanzate come l’Italia». Ha parlato in questi termini [7] il professor Surya Deva, presidente del gruppo di lavoro Onu su Business and Human right, al termine dalla missione Onu su diritti umani e attività d’impresa portata avanti nel nostro paese.

il problema è che, come abbiamo già evidenziato, si tratta di un fenomeno alquanto difficile da individuare, a meno che non sia il lavoratore stesso a denunciare. Difficile però che questo accada quando in gioco c’è il rischio di perdere tutto, anche quel poco che si ha.

[di Gloria Ferrari]