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L’industria fossile guadagna 3 miliardi di dollari al giorno da 50 anni

Negli ultimi 50 anni, l’industria fossile ha guadagnato 2,8 miliardi di dollari di profitto ogni giorno. A rivelarlo è uno studio del professor Aviel Verbruggen (University of Antwerp), basato sui dati della Banca mondiale e non ancora pubblicato su una rivista accademica, nonostante la sua accuratezza sia stata confermata da diversi esperti, che hanno definito il risultato una “cifra sbalorditiva”. Il totale percepito dalle compagnie di combustibili fossili dal 1970 ad oggi è stato quindi pari a 52 mila miliardi di dollari (32 volte il PIL italiano). Gli enormi profitti forniscono il potere di «comprare ogni politico, ogni sistema e ritardare l’azione sulla crisi climatica», ha dichiarato Aviel Verbruggen, che ha trovato nella limitazione artificiale dell’offerta da parte dei Paesi una delle cause degli elevati guadagni.

L’analisi si basa sui profitti giornalieri, quindi sul totale dei ricavi a cui vengono detratti i vari costi di gestione e produzione, relativi a gas e petrolio. Secondo lo studio, gli utili petroliferi rappresentano l’86% del totale (2,4 miliardi di dollari). «Sono rimasto davvero sorpreso da numeri così alti, sono enormi», ha commentato Aviel Verbruggen, autore dello studio ed economista energetico e ambientale. La prospettiva dei guadagni elevati polarizza le scelte a discapito delle alternative pulite e ritarda le azioni sulla crisi climatica, spingendo gli Stati produttori a limitare volontariamente l’offerta per mantenere alti i prezzi. «Gran parte dei Paesi deve fare i conti con le difficoltà dei cittadini a pagare le bollette del gas e dell’elettricità e faticano a trovare soldi da investire nelle energie rinnovabili», ha dichiarato l’autore, avanzando la soluzione all’uroboro: maggiori e sostanziali investimenti da parte delle aziende di combustibili fossili nel passaggio a un’energia a basse emissioni di carbonio. In fondo, si tratterebbe di tener fede agli impegni di “trasformazione e sostenibilità” assunti, tra cui figura la neutralità carbonica entro il 2050. Tuttavia, le idee sul tavolo delle multinazionali indicano tutt’altra volontà, con decine di progetti [1] di espansione e di apertura di nuovi impianti estrattivi che potrebbero minare l’obiettivo (concordato a Parigi nel 2015) di contenimento del riscaldamento globale a 1,5 °C entro fine secolo.

Un cambio di direzione, lontano dalle logiche del greenwashing [2], appare oggi complicato, dal momento in cui l’industria dei combustibili fossili beneficia di 16 miliardi di dollari giornalieri di sussidi governativi e rappresenta un mercato appetibile agli occhi degli investitori, come sottolineato da Mark Campanale, di Carbon Tracker, un think tank no-profit con sede a Londra che studia l’impatto dei cambiamenti climatici sui mercati finanziari. «È interessante notare come, nel bel mezzo di una crisi del costo della vita che si ripercuote su miliardi di persone, il flusso di denaro verso un numero relativamente piccolo di petrostati e società energetiche è destinato a raddoppiare entro la fine dell’anno», ha dichiarato Campanale. Si pensi a ENI, graziata dal governo Draghi e dalla rimozione [3] di una norma sugli extra profitti dal Decreto Bollette, che nel primo trimestre del 2022 ha registrato un utile netto adjusted di 3,27 miliardi di euro, in crescita rispetto al periodo precedente proprio grazie all’aumento «delle quotazioni delle materie prime».

[di Salvatore Toscano]