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La tragedia della Marmolada e la questione ambientale

È di 7 vittime, 8 feriti e 5 dispersi il bilancio provvisorio della tragedia della Marmolada, il massiccio delle Alpi orientali (Dolomiti) che domenica è stato investito da un violento distacco di un seracco. Intorno alle 13.40, una valanga di neve, pietre e ghiaccio ha così travolto a 300 km/h tutto ciò che ha trovato lungo il fianco della montagna, coprendo una distanza di due chilometri: investita anche la via normale, uno dei percorsi più usati per raggiungere la cima. Dopo il blocco parziale di domenica, il sindaco di Canazei Giovanni Bernard ha disposto in un’ordinanza la chiusura della Marmolada, così da agevolare i lavori dei soccorritori, resi difficili dalle alte temperature, le stesse che – unitamente alle ridotte precipitazioni nevose dello scorso inverno – risultano colpevoli nel distacco del seracco.

Il cambiamento climatico ha spinto, nel 2020, Legambiente e Comitato Glaciologico italiano a lanciare la campagna Carovana dei ghiacciai, con l’obiettivo di monitorare lo stato di salute dei ghiacciai alpini. Tra questi anche la Marmolada, che tra il 1905 e il 2010 ha perso più dell’85% del suo volume acquoso, arretrando verso la parete rocciosa e avvicinandosi alla scomparsa (prevista entro i prossimi 15-20 anni). «Senza neve, ma coperto di detriti e pietre, il ghiacciaio non si presenta più bianco, ma di una colorazione scura, che aumenta ancora di più la quantità di radiazione solare che viene assorbita dalla superficie», ha dichiarato Antonello Pasini, fisico climatologo del CNR, in riferimento alle scarse precipitazioni nevose dello scorso inverno, un fenomeno alimentato dal cambiamento climatico. A questo punto, il ghiaccio e la neve che ritornano allo stato liquido scivolano verso valle ma non solo, andandosi a infiltrare alla base del ghiacciaio e lubrificando il contatto con la roccia. Questo fenomeno, a lungo andare, provoca inevitabilmente un distacco, come accaduto domenica scorsa alla Marmolada. Segnali utili a mappare il territorio e a monitorare le situazioni a rischio sono la mancanza di neve, il ghiaccio fuso, la caduta di pietre e il suono dell’acqua che scorre al di sotto del ghiaccio.

Segnali che c’erano sulla Marmolada e che aprono alla necessità di un monitoraggio concreto e diffuso, ricordando allo stesso tempo l’importanza della lotta al cambiamento climatico, che è imprevedibile e può manifestarsi in qualsiasi momento, anche di domenica, il giorno per eccellenza delle escursioni. «È chiaro che non si può prevedere il momento esatto in cui eventi del genere avverranno, ma siamo assolutamente in grado di riconoscere le situazioni meteo-climatiche a rischio, così come si fa per le valanghe, attraverso i bollettini», ha dichiarato Antonello Pasini, per poi ammonire: «non dobbiamo dimenticare che questi fenomeni sono legati ai cambiamenti climatici. Potremo adattarci e difenderci fino a un certo punto». Anche i dati lo dimostrano: è necessaria un’inversione verso un modello di sviluppo sostenibile, che ponga in risalto la salute umana e del pianeta. Nel 1989, stando al catasto World Glacier Inventory, la superficie dei ghiacciai italiani era pari a 609 chilometri quadrati. Oggi si è passati a 368 chilometri quadrati, segnando una perdita del 40%. I ghiacciai – complici le alte temperature e le precipitazioni nevose irregolari – si sciolgono e si frammentano, riducendo sistemi glaciali complessi a singoli ammassi più piccoli, che per le leggi della fisica sono maggiormente esposti al cambiamento climatico.

Ciò che le associazioni ambientaliste chiedono alle istituzioni italiane è un doppio impegno: mitigazione e adattamento. Nel primo caso, si tratta di abbattere le emissioni di gas climalteranti (anidride carbonica, metano, idrofluorocarburi, PFC), mentre nel secondo l’attenzione è rivolta all’adozione di misure che fronteggino il danno e gli impatti già in atto. Soluzioni che – al netto di dichiarazioni di rito – appaiono oggi lontane. L’Italia ha deciso [3] infatti di sostituire le importazioni energetiche russe con contratti simili in Algeria, Egitto, Congo, Angola e con l’installazione – al centro di proteste [4] – di due nuovi rigassificatori, che permetteranno l’approvvigionamento di gas naturale liquido da Washington. Nei giorni scorsi, la Corte Suprema statunitense ha limitato l’abilità dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (EPA) di imporre direttive vincolanti per diminuire l’emissione di gas serra, una delle cause del cambiamento climatico. Una vittoria per l’industria fossile e una sconfitta, l’ennesima, dell’amministrazione Biden, che puntava a dimezzare le emissioni entro il 2030, passando da 5 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti (che rendono gli Stati Uniti il secondo produttore al mondo di anidride carbonica dopo la Cina) a 2,5.

[di Salvatore Toscano]