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Israele avvia la più grande espulsione di palestinesi degli ultimi 50 anni

Quella del primo giugno è una data che alcuni palestinesi ricorderanno più di altri: in mattinata l’esercito israeliano ha demolito le tende con 21 di loro all’interno, colpendo le stesse persone alle quali le forze dell’ordine avevano già distrutto le abitazioni il mese scorso. È accaduto nei villaggi di al-Markaz e Fakheit, a Masafer Yatta, una zona a sud di Hebron, collocata nell’area definita “C” della Cisgiordania e che da tempo l’esercito israeliano mira a “ripulire” dagli arabi.

Anche se le demolizioni delle abitazioni palestinesi da parte di Israele non sono una novità, quelle delle ultime settimane sono il frutto di una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia israeliani emessa il 4 maggio [4], che dopo anni di abbattimenti, ricostruzioni e battaglie legali ha di fatto concesso senza se e senza ma il permesso all’esercito di spazzare via tutto quello che per gli arabi assuma una forma di riparo e\o dimora (senza curarsi di chi ci vive all’interno). Respingendo gli innumerevoli appelli per fermare lo sgombero e concedendo all’esercito il controllo totale dell’area.

«L’obiettivo è mandarci nella disperazione», ha detto Muhammad al-Najjar [5], un residente ad al-Markaz. «Sono venuti subito a fare demolizioni contro tutti coloro le cui case avevano già distrutto». Dopo la sentenza, infatti, l’esercito può letteralmente tornare nello stesso luogo e demolire gli stessi edifici, nello stesso punto, senza che ci sia un nuovo ordine che lo permetta da capo.

Com’è possibile? Masafer Yatta si trova all’interno di una zona che nel 1981 è stata dichiarata “di tiro” per l’esercito: in altri termini, una sorta di poligono a cielo aperto. Sono 1.300 i palestinesi che vivono in questa fetta di territorio, distribuiti in almeno otto villaggi. I primi ordini di sfratto, per le prime 700 persone, sono stati emessi nel 1999. Alla sentenza è immediatamente seguito un ricorso effettuato dall’Associazione per i diritti civili in Israele (ACRI), che ha permesso agli abitanti di tornare a casa fino al raggiungimento di una decisione definitiva. Che è arrivata il 4 maggio.

I palestinesi, come era facile da prevedere, non sono riuscite a dimostrare – a detta della corte israeliana –  di avere dei diritti sulla terra che abitano o di aver già vissuto lì prima che fosse destinata a diventare un tiro al bersaglio. Molte famiglie sono già rimaste senza casa, e alcuni, come vi abbiamo raccontato all’inizio del pezzo, anche senza tenda. Per questo molte persone cercano rifugio nelle grotte naturali, [6] di certo posti che permettono di ripararsi dalle intemperie ma non offrono una sistemazione dignitosa. Ma non c’è altra scelta, soprattutto perché gli abitanti dei villaggi non intendono abbandonare la propria terra.

E al momento, neppure l’esercito israeliano, che in una dichiarazione successiva alla sentenza [7] ha riferito che «la Corte suprema ha pienamente accettato la posizione dello Stato di Israele e ha stabilito che i palestinesi non sono residenti permanenti nell’area. Gli stessi hanno respinto inoltre qualsiasi tentativo di compromesso che gli è stato offerto».

Per gli attivisti c’è un solo scenario possibile: nei prossimi mesi assisteremo alla più grande espulsione di massa di palestinesi dalla Cisgiordania occupata dalla guerra dei Sei giorni del 1967, il conflitto che ha segnato la supremazia israeliana su gran parte dei territori occupati dagli arabi.

È comunque difficile documentare e sapere con esattezza quello che accade in queste terre. I militari sono spesso restii a far entrare giornalisti: ai reporter viene detto che non possono accedere ad una zona militare adibita al tiro. Ma per molti esperti la verità è un’altra.

“L’importanza vitale di questa zona di tiro per le forze di difesa israeliane deriva dal carattere topografico unico dell’area, che consente metodi di addestramento specifici sia per unità piccole che grandi, che si tratti di un piccolo gruppo di soldati o di un battaglione”. Questo è quello che si legge negli atti del tribunale, riportati dal The Times of Israel [10]: una serie di giustificazioni che di fatto mirano a evidenziare l’importanza del Masafer Yatta per l’esercito israeliano.

Studiosi e attivisti per i diritti umani, sia palestinesi che israeliani, sostengono invece che l’obiettivo reale di Israele – e della definizione di area da tiro – sia chiaramente lo sgombero dei residenti arabi, col fine ultimo di perseguire e rafforzare la sua presenza nei territori arabi. Non è la prima volta che il paese si serve di una tale strategia con mire espansionistiche, nonostante “l’espansione degli insediamenti, le demolizioni e gli sfratti sono illegali secondo il diritto internazionale [11]. L’UE condanna questi piani ed esorta Israele a cessare le demolizioni e gli sfratti, in linea con i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. L’istituzione di una zona di tiro non può essere considerata un motivo militare imperativo per trasferire la popolazione occupata”.

Ad oggi, però, le testimonianze palestinesi (sostenute da filmati aerei, foto, documenti) che dimostrano l’esistenza dei villaggi di Masafer Yatta ancora prima del 1981 e che questi fossero abitati, non sono bastate. D’altronde, come si fa a chiedere a qualcuno di accorgersi di qualcosa se di fondo non vuole vederla?

[di Gloria Ferrari]