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Mascherine e lockdown: le restrizioni anti-covid, in definitiva, hanno avuto senso?

Da quando, ad inizio 2020, il mondo ha dovuto fare i conti con il Covid-19, mai un’analisi sulle misure di contrasto largamente messe in campo dai governi è stata condotta. Appare dunque doveroso cercare di rispondere alla seguente domanda: ma, alla fine dei conti, mascherine e lockdown hanno consentito di contrastare efficacemente il virus? Arrivare ad una risposta secca, è d’obbligo anticiparlo, è pressoché impossibile: sono diversi infatti gli studi da cui emerge l’utilità di tali misure, tuttavia sulla base di alcune ricerche scientifiche, di alcune tesi e degli effetti collaterali delle restrizioni, ci si chiede se il modus operandi cui si sono rifatti gran parte dei Paesi fosse l’unico percorribile.

Le mascherine sono state utili?

Le mascherine sembrano essere state efficaci nello svolgere il loro compito, quello di contrastare la trasmissione del virus, con vari studi che hanno posto la lente di ingrandimento sul tema. Da una ricerca [1] pubblicata sul sito ScienceDirect e svolta con l’intento di valutare l’efficacia dell’uso delle mascherine nel prevenire la trasmissione del SARS-CoV-2, è emerso che “indossarle potrebbe ridurre il rischio di infezione”. Sono infatti stati analizzati 6 studi che includevano un totale di 1233 partecipanti, e dagli stessi si è evinto che le mascherine fossero in generale associate a “un rischio significativamente ridotto di infezione da Covid-19” e che negli operatori sanitari – al centro di 5 delle 6 ricerche analizzate – le mascherine avessero diminuito il rischio di “quasi il 70%”.

Da un lavoro [2] pubblicato sul Journal of the Royal Society Interface, invece, si apprende che le mascherine diminuiscano il rischio di contagio diretto, ossia tramite le goccioline di saliva. Grazie ad un nuovo modello teorico in grado di valutare il rischio di contagio associato a queste goccioline, si è infatti arrivati alla conclusione per cui le mascherine forniscano “un’eccellente protezione, limitando efficacemente la trasmissione degli agenti patogeni anche a brevi distanze fisiche, ovvero 1 metro”. Precisamente, “a distanza ravvicinata l’esposizione al virus associata ad una persona infetta che indossa una mascherina chirurgica è di circa tre volte inferiore al suo valore corrispondente senza mascherina” ed indossare correttamente una mascherina N95 (con un’efficacia filtrante del 95%) “potrebbe ridurre ulteriormente l’esposizione a un livello di infezione quasi inesistente”. Tale protezione potrebbe appunto derivare dalla “capacità delle mascherine di bloccare le goccioline più grandi, che caricano più copie del virus rispetto a quelle più piccole”, ma anche dalla “soppressione della velocità del flusso d’aria”, che “si traduce in una minore distanza di propagazione delle goccioline”.

Infine non si può non citare uno studio [3], pubblicato sulla rivista BMJ Global Health, che ha “fornito la prima prova dell’efficacia dell’uso della mascherina”. Lo studio, condotto dal 28 febbraio al 27 marzo 2020 a Pechino, ha riguardato 124 famiglie con almeno un caso di Covid confermato ed il suo obiettivo era quello di verificare quanto le misure di prevenzione – tra cui l’utilizzo delle mascherine – incidessero sulla trasmissione secondaria del SARS-CoV-2 nelle famiglie. Ne è emerso che “l’utilizzo della mascherina da parte del caso primario e dei contatti familiari prima che il caso primario sviluppasse i sintomi si è rivelato efficace al 79% nel ridurre la trasmissione”.

Un nuovo studio sulle mascherine e le decisioni politiche lasciano perplessi

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C’è tuttavia anche un’ipotesi emersa da un recente studio che getta alcune ombre sull’effetto delle mascherine sul decorso della malattia. “Un meccanismo mediante il quale le mascherine contribuiscono al tasso di mortalità Covid-19”: è questo il titolo dello studio [5] pubblicato sulla rivista Medicine, il cui obiettivo era appunto quello di “determinare se l’uso obbligatorio della mascherina avesse influenzato il tasso di mortalità in Kansas, negli Stati Uniti, tra il 1 agosto e il 15 ottobre 2020”. Gli studiosi sono arrivati alla conclusione per cui “indossare mascherine potrebbe comportare un grande rischio per gli individui, che non sarebbe mitigato da una riduzione del tasso di infezione”, e che quindi “il loro utilizzo potrebbe essere inadatto, se non controindicato, come intervento epidemiologico contro il Covid-19”. I ricercatori hanno formulato tale tesi in virtù di un’analisi basata sui dati delle contee del Kansas, dalla quale si è evinto che quelle in cui vi era l’obbligo di indossare la mascherina avessero “tassi di mortalità significativamente più elevati” rispetto a quelle in cui tale imposizione non vi era: “questi risultati suggeriscono fortemente che l’obbligo di indossare la mascherina ha effettivamente causato circa 1,5 volte il numero di decessi o circa il 50% in più di decessi rispetto ai posti in cui non vi era l’obbligo di utilizzare la mascherina”, si legge in tal senso nello studio. I ricercatori hanno ipotizzato che la causa di questa tendenza risieda nell'”effetto Foegen”, ossia nella “reinalazione profonda di goccioline ipercondensate o virioni puri catturati nelle mascherine”, che “possono peggiorare la prognosi e potrebbero essere collegate agli effetti a lungo termine dell’infezione da Covid-19”. Una teoria che tuttavia rappresenta al momento una semplice ipotesi: “sebbene l’effetto Foegen sia stato dimostrato in vivo in un modello animale, sono necessarie ulteriori ricerche per comprenderlo appieno”, si legge infatti nello studio.

A prescindere da ciò, però, non si può non sottolineare che le decisioni politiche adottate in merito alle mascherine lascino comunque perplessi. Nel corso del periodo emergenziale, infatti, in diversi paesi tra cui l’Italia si è insistito sull’obbligo di indossarle anche all’aperto nonostante diverse ricerche avessero dimostrato che non vi fosse una reale necessità di utilizzarle all’esterno. Basterà citare uno studio [6] risalente all’aprile 2021 dell’Health Protection Surveillance Centre (Hpsc), l’ente che monitora la situazione epidemiologica in Irlanda, dal quale era emerso che solo un caso di Covid su mille fosse riconducibile ad un’infezione avvenuta all’aperto. A ciò si aggiunga che esattamente un anno fa il Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), l’agenzia governativa di controllo sulla sanità negli Stati Uniti, aveva ammesso [7] che le misure imposte per l’utilizzo delle mascherine all’aperto si fossero basate su studi sbagliati e su stime completamente inesatte, nonché che i dati disponibili supportassero l’ipotesi che il rischio di trasmissione all’esterno fosse alquanto basso.

Il lockdown è stato efficace?

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Venendo al lockdown, bisogna precisare che varie ricerche confermino che tale misura abbia salvato la vita delle persone. A tal proposito, non si può non citare uno studio [9] pubblicato sulla rivista scientifica Nature con il quale sono stati stimati gli effetti degli “interventi non farmaceutici” – tra cui appunto il lockdown – messi in campo in diversi paesi europei contro il Covid. Dalla ricerca – con cui nello specifico è stato studiato l’effetto di tali misure in 11 paesi europei dal febbraio 2020 al 4 maggio 2020 – è emerso che “i principali interventi non farmaceutici, e in particolare i lockdown, abbiano avuto un grande effetto sulla riduzione della trasmissione”: grazie al lockdown, infatti, quest’ultima è stata ridotta dell’81%. Inoltre, secondo le stime dei ricercatori, grazie agli interventi non farmaceutici 3,1 milioni di decessi sono stati evitati nel periodo preso in considerazione.

Anche secondo un’altra ricerca [10] pubblicata su SpringerLink tale misura restrittiva si è rivelata essere efficace. Con l’intento di valutare a livello internazionale l’effetto del lockdown sul numero di nuovi contagi, i ricercatori hanno analizzato dati provenienti da centinaia di paesi: i risultati emersi hanno suggerito che il lockdown sia “efficace nel ridurre il numero di nuovi casi nei paesi che lo implementano rispetto a quelli che non lo fanno” e che ciò sia “particolarmente vero circa 10 giorni dopo la sua attuazione”, con la sua efficacia che “continua a crescere fino a 20 giorni dall’implementazione”.

Vi sono però anche studi che non giungono a conclusioni totalmente positive. Tra questi va certamente menzionata una ricerca [11] pubblicata sulla rivista European Journal of Medical Research con cui è stato analizzato, in 27 paesi selezionati casualmente, l’impatto del lockdown sulla “prevalenza” del Covid (una misura di frequenza impiegata in epidemiologia per esprimere il rapporto fra il numero di persone malate in una popolazione e il numero totale degli individui) e sulla mortalità legata al virus durante la pandemia del 2020. A finire sotto la lente di ingrandimento dei ricercatori sono stati precisamente i “15 giorni antecedenti, i 15 giorni durante ed i 15 giorni successivi al lockdown”, ed i risultati emersi non sono stati ottimali. Questi ultimi – si legge infatti nella ricerca – hanno evidenziato che “15 giorni dopo il lockdown i casi giornalieri di Covid-19 ed il fattore di crescita della malattia mostrassero un trend in calo” ma che non ci fosse “nessun calo significativo della prevalenza media e del tasso di mortalità medio causato dalla pandemia rispetto ai 15 giorni precedenti ed ai 15 giorni durante il lockdown”.

Esistevano alternative al lockdown?

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Alla luce di tali ricerche, la domanda che sorge spontanea è la seguente: esistevano alternative al lockdown? Per rispondere a tale quesito innanzitutto non si può non citare il caso delle Isole Faroe [13], che scegliendo di percorrere una strada alternativa hanno ottenuto risultati di tutto rispetto. Le Faroe, infatti, non imponendo alcun lockdown generalizzato durante il primo anno pandemico hanno avuto numeri migliori della vicina Islanda, dove la politica sanitaria è stata ben più rigida. Nelle Isole Faroe la lotta al virus si è basata principalmente su delle semplici raccomandazioni del governo, che ha invitato i cittadini a seguire determinate regole anziché imporle, e sull’implementazione di un massiccio regime di test. L’Islanda invece ha attuato misure rigorose con cui sono state chiuse nel mese di marzo 2020, tra l’altro, le università e le scuole secondarie nonché poi anche tutte le piscine, i musei ed i bar. Successivamente, a differenza di quanto fatto nelle Faroe, con la nuova ondata autunnale è stata disposta nuovamente la chiusura di bar, palestre e luoghi di intrattenimento. Eppure, confrontando i numeri sul Covid tra le due nazioni, quelli delle Isole Faroe paiono migliori: al 28 febbraio 2021, infatti, i casi confermati nelle Faroe erano poco meno di 14.000 per milione di persone ed i decessi [14] erano di 20 per milione, mentre in Islanda vi erano circa 16.000 casi e 80 decessi per milione. Certo, alla data del 28 febbraio 2021 nelle Faroe il 5,8% della popolazione era completamente vaccinata [15] ed in Islanda il 3,4%, tuttavia si tratta di una leggera differenza che può aver inciso solo limitatamente. Inoltre, se da un lato il minor numero di abitanti delle Isole Faroe (circa 50.000) rispetto a quello dell’Islanda (circa 366.000) potrebbe far pensare che il paragone sia totalmente fuorviante, la densità di popolazione dimostra che ciò non sia esatto, in quanto quella delle Isole Faroe (34,8 abitanti per chilometro quadrato) è molto più elevata di quella dell’Islanda (3,09 abitanti per chilometro quadrato).

Infine, una risposta a tale quesito potrebbe risiedere nella Dichiarazione di Great Barrington [16]un documento dell’ottobre 2020 nel quale era stato suggerito un modo di operare differente per contenere la pandemia. A redigerlo erano stati tre autorevoli epidemiologi – il dott. Martin Kulldorff, la dott.ssa Sunetra Gupta ed il dott. Jay Bhattacharya – che avevano proposto un metodo chiamato “Protezione Focalizzata” e  basato sul fatto che l’incidenza della mortalità da Covid fosse “più di mille volte superiore negli anziani e nei malati rispetto ai giovani”. Gli autori avevano consigliato di permettere alle persone meno vulnerabili di “vivere normalmente la loro vita così da costruire l’immunità al virus attraverso l’infezione naturale” e di proteggere, invece, i soggetti più a rischio. Seppur si trattasse di una mera tesi, non si può non sottolineare che essa fosse sostenuta da epidemiologi di spessore e che nonostante ciò non sia stata presa minimamente in considerazione. Per questo, il fatto che il lockdown generalizzato costituisse l’unico nonché il miglior rimedio alla pandemia continua a generare dubbi, soprattutto se si considera che due anni di restrizioni hanno prodotto diversi effetti collaterali tra cui seri problemi psicologici nei bambini [17]. Disturbi da stress post-traumatico, ansia e depressione sono solo alcune delle conseguenze di tali scelte, i cui effetti, evidentemente, sono tutt’altro che esclusivamente positivi.

[di Raffaele De Luca]