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Costretti a lottare per la salute al tempo della transizione ecologica

“Green”, “sostenibile”, “ecocompatibile”, “bio”: gli slogan della transizione ecologica sono ormai ovunque. Dal cibo che mangiamo, al sapone che utilizziamo: tutto sembra concepito nel rispetto dell’ambiente e della salute umana. Andando però oltre le pubblicità – e il relativo greenwashing – la realtà che si presenta è un’altra. In Italia, si stima che solo l’inquinamento atmosferico abbia causato, nel 2019 [1], circa 65 mila morti premature. Una “epidemia” silenziosa con focolai sparsi qua e là lungo tutta la Penisola. E non è la sola in atto. Ai decessi legati ad un più generico inquinamento dell’aria, si sommano quelli correlati ad altre contaminazioni, spesso più puntuali, per le quali – se non altro – è possibile individuarne i diretti responsabili. Sono questi i casi che più frequentemente mobilitano le masse, in cui si pretende giustizia, dove però non è affatto scontato ottenerla. Lottare per la salute e un ambiente sano, infatti, significa prima accendere i riflettori, poi sperare che si venga ascoltati e, solo infine, confidare che la legge faccia il suo dovere.

L’altra faccia del Bel Paese

L’Italia ospita bellezze storiche e naturalistiche ambite dalla maggior parte dei Paesi del globo. Tuttavia, oltre il buon cibo, le spiagge e l’architettura, l’Italia vanta anche dei primati tutt’altro che invidiabili. La nostra penisola ospita la Pianura Padana, l’area geografica in assoluto più inquinata d’Europa, l’acciaieria più grande e letale del Vecchio Continente e un numero spaventoso di siti particolarmente contaminati. E questi sono solo gli esempi più eclatanti. I cittadini diretti interessati, però, solo raramente se ne sono stati con le mani in mano. Tra proteste, denunce e scioperi, la maggior parte dei casi di grave inquinamento è stata debitamente attenzionata e, qualche volta, i decisori politici non hanno potuto far altro che cambiare le cose. Basti pensare al caso [2] dell’inquinamento da Sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) in Veneto, «il più grande inquinamento Pfas d’Europa per importanza ed estensione. Probabilmente – come l’ha definito il ricercatore del CNR che ha seguito la questione – il più grande anche del mondo se escludiamo la Cina». Tra Vicenza, Verona e Padova, sono ormai centinaia di migliaia le persone con concentrazioni oltre il limite di queste sostanze nel sangue. Sostanze notoriamente tossiche e particolarmente pericolose per i più giovani. Una vicenda drammatica che, tuttavia, non avrebbe preso i risvolti attuali se le persone non si fossero ribellate. In prima linea, il “Comitato Mamme No Pfas” che dopo anni di battaglie è riuscito a portare il caso davanti l’Alto commissariato delle Nazioni Unite e fatto sì che la condanna per i responsabili individuati – per il 97%, l’azienda Miteni Spa – fosse sempre più vicina. C’è poi il ben più noto caso dell’acciaieria di Taranto. Secondo quanto stabilito dalle perizie ufficiali [3], le emissioni dell’allora Ilva hanno causato un totale di 11.550 morti, con una media di 1.650 morti all’anno, soprattutto per cause cardiovascolari e respiratorie. 26.999 le persone ricoverate, con una media di 3.857 ricoveri l’anno. Dati i numeri, difficilmente la vicenda tarantina sarebbe passata inosservata (già a settembre 2013 la Commissione Europea avviò una procedura di messa in mora nei confronti dell’Italia) – ma le mobilitazioni hanno fatto sì che non si battesse mai la fiacca. La situazione, ad oggi, non si può ancora definire risolta, ma chi ha inquinato negligentemente sta iniziando a pagare. Tra politici, ex proprietari e legali, le pene inflitte ai responsabili del disastro ambientale e sanitario ammontano a 127 anni. Di questo, tra gli altri, gioiscono i “Genitori tarantini”, l’associazione che ha organizzato cortei e diverse iniziative per la tutela della salute e di commemorazione. Parlando di inquinamento e mobilitazioni, poi, non si può non menzionare la vasta area a cavallo tra Napoli e Caserta, tristemente nota come “Terra dei Fuochi”. Il termine, utilizzato per la prima volta nel Rapporto Ecomafie di Legambiente del 2003 [4], sintetizza la tragica situazione campana: interramento di rifiuti speciali, discariche abusive e un numero imprecisato di roghi tossici che sprigionano diossina e altri gas inquinanti nell’atmosfera. Anche qui, non a caso, la correlazione con un incremento della mortalità per specifiche patologie è accertata e inquietante. La popolazione interessata, così, ogni anno marcia «contro una piaga che uccide ancora». Sono milioni le persone stanche di respirare, giorno e notte, fumo nero. Che la Terra dei Fuochi smetta presto di uccidere non ci credono in molti, ma piccole conquiste sono state già portate a casa. Come il caso della controversa discarica di Chiaiano, definitivamente chiusa dopo anni di opposizione popolare.

Contro la contaminazione fossile

Se non si fosse capito, l’Italia primeggia in Europa per inquinamento industriale. E tra tutti gli impianti inquinanti, ce ne sono poi, da noi come altrove, alcuni dalle particolari criticità. Stiamo parlando delle centrali termoelettriche alimentate a carbone, le principali responsabili delle emissioni di sostanze inquinanti e gas serra. Tra i 211 siti europei nel complesso più contaminanti, al 2017, 13 erano proprio in Italia [5].

Localizzazione delle 211 strutture che rappresentano il 50% dei costi complessivi dei danni causati dai principali inquinanti atmosferici e gas serra nel 2017 (EEA, 2021).

Il carbone è un killer silenzioso che diviene poi ancor più letale se ha come complice una gestione che ha occhi solo per il profitto. Emblematico, in questo senso, il caso della centrale di Vado ligure della ex Tirreno Power. Il 14 dicembre, il processo contro i 26 indagati per disastro ambientale e sanitario colposo, ha fatto un importante passo avanti [6]. Sono stati infatti ascoltati i consulenti tecnici di “Uniti per la Salute”, il comitato cittadino dal cui esposto del 2010 è nata l’indagine. Questi, hanno presentato dati incontrovertibili sugli eccessi di mortalità, nella zona e nel periodo d’indagine, ben oltre la norma. Qui, è bastata una manciata di cittadini, spinta dalle giuste motivazioni, a far crollare un colosso energetico. Tra chiusure e tutt’altro che rassicuranti conversioni al gas naturale, l’era del carbone, comunque, sembra avvicinarsi alla fine. Non si può però dire altrettanto dell’industria fossile nel complesso, la quale, anche escludendo la fonte più inquinante, solo in Italia, vanta un numero di disastri ecologici unico al mondo. Basti pensare ad Eni, l’orgoglio tutto italiano, l’azienda più inquinante della Penisola, nonché responsabile di alcuni dei siti più contaminati d’Italia. Giusto per citarne un paio: il Centro olio Val d’Agri, in Basilicata [7], e la zona industriale di Livorno-Collesalvetti, in Toscana [8]. Anche in questi casi, e soprattutto alla luce di uno o più illeciti ambientali smascherati, le proteste non sono mancate. Tuttavia, si ha come l’impressione che l’efficacia di queste si indebolisca proporzionalmente alla maggiore influenza politica ed economica dell’azienda accusata. D’altra parte, mai come nel caso dell’industria fossile le lotte per la salute e quelle per l’ambiente vanno di pari passo. Comunque sia, non c’è più spazio per il petrolio. A sottolinearlo, anche il presidio del movimento Fridays For Future che, a maggio 2021, ha dato vita alla protesta “Many against Eni” proprio davanti la raffineria del Cane a sei zampe di Stagno. «Un caso – come lo hanno descritto gli attivisti nel corso dell’occasione – paradigmatico del modello di finta transizione voluta dal governo e dalle multinazionali».

La lotta per il reato di ecocidio

Tutti questi casi, oltre a minacciare la salute pubblica e la salubrità ambientale, hanno anche altro in comune: una definizione legale. Si tratta di ecocidi, ovvero, i crimini a spese di ecosistemi marini e terrestri, alla flora e alla fauna all’interno di questi, nonché l’impatto che ne deriva sul clima e le comunità. Il termine, coniato nel 1970 dal biologo statunitense Arthur Galston, solo recentemente è tornato alla ribalta. In particolare, grazie ad un gruppo di lavoro formato da avvocati e legali internazionali riuniti nella coalizione Stop Ecocide International. Questi hanno messo a punto una definizione giuridica di ecocidio e chiesto che il reato venga aggiunto ai crimini di cui si occupa la Corte penale internazionale dell’Aja, insieme ai crimini di guerra, ai crimini contro l’umanità e ai genocidi. Per raggiungere questo obiettivo, già nel 2017, è stata lanciata una prima campagna pubblica, «ma – come spiega [9] Jojo Mehta, presidente della coalizione – è negli ultimi due o tre anni che c’è stato un cambiamento significativo: i cittadini e i politici oggi ascoltano con molta più attenzione quello che chiediamo da anni. A mio avviso succede perché, da un lato, c’è più consapevolezza dell’urgenza di un cambiamento, dall’altro, le mobilitazioni di massa per il clima, hanno acceso ulteriormente l’attenzione. Oggi i temi del clima e dell’ambiente sono ampiamente diffusi e se ne parla anche sui media mainstream. Il risultato è che anche temi che potevano sembrare ‘estremi’, come la nostra proposta, vengono percepiti in modo diverso». Qualche paese, come la Francia, il Regno Unito e il Messico, ha già iniziato ad introdurre il reato nei propri codici penali. E l’Italia? Sebbene il nostro paese riconosca diversi reati ambientali perseguibili penalmente, l’introduzione del più generico ecocidio potrebbe fare la differenza. Un reato ad ampio spettro, infatti, includerebbe ogni crimine ecologico senza lasciare spazio a scappatoie normative. Basti pensare che, nonostante le sanzioni previste, nel 2020, l’anno della pandemia, tutti i reati hanno subito una qualche battuta d’arresto, tranne gli illeciti ambientali. Secondo il rapporto Ecomafia 2021 [10] di Legambiente, sono stati quasi 35 mila, lo 0,6% in più rispetto al 2019.

[di Simone Valeri]