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Un italiano racconta le incredibili restrizioni anti-Covid in vigore a Shanghai

Alessandro Pavanello, un ragazzo di Padova residente da diverso tempo a Shanghai, si trova da tre giorni all’interno di un centro Covid nella metropoli cinese. Attraverso i social fornisce una preziosa quanto ironica testimonianza di cosa significhi trovarsi all’interno di questi enormi centri, pensati per il contenimento della pandemia ma all’interno dei quali le norme igieniche di base vengono del tutto dimenticate. Unica nota positiva: «qui quantomeno abbiamo da mangiare». Le persone rimaste nelle proprie abitazioni, infatti, si trovano nell’impensabile situazione di non riuscire a procurarsi il cibo, perché i negozi sono chiusi e gli addetti al delivery sono sempre meno.

L’ironia come arma per esorcizzare le difficoltà del quotidiano vivere: così Alessandro Pavanello [1], giovane padovano residente a Shanghai, affronta la quotidianità all’interno di un centro Covid. Attraverso video e foto postate sul proprio profilo Instagram, Alessandro rende partecipe il resto del mondo di cosa significhi vivere in un centro di contenimento della pandemia da Covid in Cina. Shanghai [2] ha infatti recentemente registrato un’impennata nei casi di Covid, motivo per il quale da settimane si è tornati in un regime di lockdown duro. Ma all’atto pratico le misure messe in atto dalle istituzioni governative non sembrano affatto adeguate ad un effettivo contenimento dei contagi.

Il centro in cui Alessandro si trova da tre giorni è una gigantesca ex area expo, al cui interno sono state stipate centinaia di brandine da campo. Le persone vivono in una condizione di totale promiscuità, dove il distanziamento minimo non è garantito e dove non vengono prese nemmeno le precauzioni di base per monitorare e prevenire il contagio. «Ci fanno quasi quotidianamente dei test (oggi, per esempio, non ne abbiamo fatti)» racconta Alessandro, ma «non viene misurata la temperatura» ed è evidente dalle immagini che in molti non dispongono nemmeno delle mascherine chirurgiche. A far da sottofondo quasi continuo vi è il coro di tosse dei contagiati. Nemmeno le norme igieniche di base vengono rispettate adeguatamente: i bagni sono sporchi e non vi sono docce. Per lavarsi vengono forniti una confezione di lozione, una bacinella (da riempire con acqua rigorosamente fredda) e un asciugamano da immergere nell’acqua per strofinare il corpo. I capelli si lavano nel lavandino, sotto il rubinetto.

Alcuni centri, come quello dove è ospite la fidanzata di Alessandro, contengono fino a 5000 persone, motivo per il quale è difficile che tutti riescano a passare per l’iter predefinito corretto. Lei è già sulla lista di coloro che hanno due tamponi negativi e quindi potrebbero uscire, ma ancora non l’hanno lasciata andare. «Appena avrò i due tamponi negativi chiederò immediatamente l’aiuto del Consolato italiano per uscire il prima possibile, ma lei è ucraina e in questo momento difficilmente potrà ricevere lo stesso aiuto». La notte risulta anche difficile dormire, a causa del continuo rumore e del fatto che le luci rimangono costantemente accese. «Dove sta lei è peggio, perché tengono tutte le luci accese sempre. Qui quantomeno ne spengono qualcuna per dormire, anche se non tutte». In giro per la struttura si vede gironzolare anche qualche bambino: fino a un paio di giorni fa li separavano [3] dai genitori in caso di bambini positivi e genitori negativi o viceversa, ma ora hanno smesso, spiega il Alessandro.

Ma vi è un particolare che rende ancora più inquietante la sua testimonianza. Alessandro riferisce infatti che «La cosa che mi ha colpito di più è stato un signore che mi ha detto “qua c’è cibo gratis”. Adesso a Shanghai, fuori da questi centri, è difficilissimo ottenere cibo e acqua. La gente si sta dannando per ottenere delle consegne di cibo, di frutta e verdura, di carne, uova, è quasi impossibile. Appena sono risultato positivo la prima volta, il 28 marzo, mi hanno detto di rimanere in casa. Abbiamo ordinato dalle app di delivery un po’ di scorte di cibo e il governo ha dato al complesso dove vivevamo un sacchetto con delle scorte di frutta e verdura, uova eccetera. Questo solo una volta. Io sono arrivato al 9 aprile che avevo il frigo quasi vuoto, ho dovuto chiedere una mano ai miei vicini che mi hanno dato un pacchetto con un cetriolo, del pane e della frutta secca. Però quando tornerò a casa, se la situazione rimane la stessa, io ho cibo solamente per due o tre giorni».

«Il problema» spiega il ragazzo «è stato che hanno chiuso i negozi e c’erano pochissimi delivery man. Tutto il cibo sta andando verso questi centri qua, la gente fuori non ne riceve. Noi qua viviamo in una situazione un po’ così ma non abbiamo il cibo, la gente fuori vive nel comfort di casa ma non ha il cibo».

In conclusione, Alessandro afferma che «Essendo stati trattati in modo quasi disumano, dal mio punto di vista, la mia percezione della Cina è cambiata totalmente. Noi stiamo cercando un modo di andarcene. I cinesi protestano sì, ma nemmeno troppo. Non danno dimostrazione di volere un cambio. Si lamentano ad alta voce, ma senza quella marcia in più. Nel centro alla fine la gente è tranquilla: loro dicono “Abbiamo un letto, cibo per tre volte al giorno: aspettiamo e poi andiamo a casa”. Per quanto riguarda me, prima o poi questa situazione finirà. Non posso far altro che sedermi e aspettare».

[di Valeria Casolaro]