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L’Europa ha deciso che la moda dovrà essere green entro il 2030: che significa?

Coscienti del breve ciclo di vita dei prodotti tessili dove solo l’un percento delle materie prime viene riutilizzato, dai vertici dell’Ue si punta ora a raggiungere l’obiettivo entro il 2030: rendere la moda un settore sostenibile, non solo ecologicamente ma anche socialmente. Il settore tessile in Europa è al quarto posto tra i motivi di maggiori emissioni: prima solo il cibo (principalmente a causa degli allevamenti intensivi), l’alloggio e la mobilità. Inoltre le prestazioni del settore della moda sono disastrose anche per quanto riguarda il consumo d’acqua, lo sfruttamento del suolo e il consumo di materie prime [1]. Di qui la battaglia intrapresa da tempo da molti gruppi ecologisti affinché il settore della moda sia riformato e affrancato dalla logica dell’usa e getta che il capitalismo ha imposto negli ultimi decenni.

L’Interveno della UE si inserisce nel nuovo pacchetto di misure proposte nel piano d’azione per l’economia circolare [2], ufficialmente approvato dalla Commissione Europea nella giornata di mercoledì 30 marzo. Nel comunicato stampa [3]viene specificato come l’obiettivo sia quello di allontanarsi dal consueto modello “prendere-fare-usare-smaltire”, con l’obiettivo di rendere il mondo del tessile ecosostenibile entro il 2030, tramite due direttrici: riciclaggio innovativo con rifiuti ridotti al minimo e prodotti di qualità sempre più duraturi.

Secondo la nuova strategia legislativa i capi dovranno essere privi di qualsiasi sostanza pericolosa per la salute umana e l’ambiente, realizzati con fibre riciclate e il più possibile resistenti. Le norme sui rifiuti tessili saranno contenute nella revisione della direttiva quadro sui rifiuti, prevista per il prossimo anno. Alcune delle principali regole riguarderanno la divulgazione del numero di tessuti invenduti scartati, il divieto di distruzione dei tessuti invenduti, la lotta all’inquinamento da microplastiche, la raccolta differenziata, la diffusione di informazioni più chiare, con tanto di passaporto digitale dei prodotti e un regime obbligatorio di responsabilità estesa del produttore dell’Ue. Un capitolo della strategia è dedicato al tema della fast fashion [4], invitando le aziende a ridurre il numero di collezioni all’anno e prevedendo misure fiscali favorevoli per il settore del riutilizzo e della riparazione.

Si mira anche a fornire supporto per “favorire la metamorfosi dell’ecosistema tessile con il lancio di uno strumento collaborativo” essenziale per aiutare le aziende a riprendersi dagli impatti negativi della pandemia di Covid-19, rendendole più resilienti e meno a rischio contro una “feroce concorrenza globale”. La Commissione [5]promuoverà altresì attività di sensibilizzazione, tanto per le aziende quanto per i consumatori, come il lancio della campagna #ReFashionNow.

Insomma un pacchetto piuttosto completo, che intende agire contro alcune delle storture prese dal mondo della moda la cui conversione a settore sempre più dominato dalle produzioni a basso costo e bassa durata ha provocato problemi ambientali, di salute e di diritti sul lavoro. Una misura che però, vista solo dal lato del modello di produzione industriale, rischia di dimenticare le ragioni profonde per le quali questo settore si è orientanto all’usa e getta: l’impossibilità oggettiva di molti cittadini ad acquistare capi più costosi. Un problema che certamente ha anche una parte culturale che è stata introdotta dalle pubblicità ossessive: si acquistano molte cose delle quali non si ha bisogno e si desidera avere molti più capi di quelli necessari, ma la soluzione – per non tramutarsi in una misura discriminatoria verso i meno abbienti – deve essere anche ricercata limitando i prezzi dei capi “responsabili” e garantendo a tutti i cittadini europei la possibilità di acquistarli.

[di Francesca Naima]