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Intramoenia: la sanità a pagamento si mangia quella pubblica

L’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) ha recentemente rilasciato il suo ultimo rapporto [1] sull’attività libero professionale intramuraria (Alpi), termine che si riferisce alle prestazioni erogate al di fuori del normale orario di lavoro dai medici di un ospedale a fronte del pagamento da parte dei pazienti di una tariffa. Il report nello specifico presenta i dati dei monitoraggi nazionali delle prestazioni prenotate in attività libero professionale nel 2020 e rappresenta uno strumento utile per comprendere quale ruolo l’Alpi (detta anche intramoenia) rivesta all’interno del sistema sanitario nonché quale sia la relazione tra essa e l’attività ordinaria. In tal senso, in 13 regioni su 21 sono state rilevate alcune situazioni in cui il rapporto tra l’attività erogata in regime istituzionale e quella erogata in intramoenia è risultato essere sbilanciato a favore di quest’ultima, rendendo di fatto difficile accedere in tempi ragionevoli a visite attraverso il sistema pubblico, mettendo di fatto i cittadini nella condizione di dover pagare profumatamente per prestazioni che dovrebbero essere garantite.

A livello nazionale, dal report si evince che le prestazioni in intramoenia non siano maggiori di quelle fornite in regime istituzionale. Le percentuali sono molto diverse tra i vari tipi di visita, passando dal 3% delle visite fisiatriche e oncologiche (dove quindi il 97% dei cittadini riesce ad accedere alle visite attraverso il SSN) al 42% delle ecografie ginecologiche. Ma è sulle prestazioni specialistiche che la situazione è più allarmante, queste rappresentano il 78% del totale delle prestazioni in intramoenia. Vero che dal 2019 al 2020 le prestazioni erogate a pagamento sono diminuite, passando da 4.765.345 a 3.204.061, ma il dato non deve ingannare. Nel mezzo c’è stato il generale crollo delle visite occorso durante la pandemia, e infatti sono crollate anche quelle erogate attraverso i canali del servizio nazionale, da quasi 59 milioni a 43,4 milioni.

La ricerca testimonia ancora una volta un quadro si assistenza sanitaria molto diverso tra le regioni italiane. In alcune aziende sanitarie locali è stato addirittura rilevato un rapporto Alpi/istituzionale superiore al 100%: significa che le visite a pagamento hanno superato quelle effettuate attraverso il canale pubblico ordinario. Una situazione particolarmente grave in Lombardia (non a caso regione laboratorio nel processo di privatizzazione della sanità italiana [2]) al punto che la Regione ha deciso [3] pochi giorni fa di intervenire per limitare il fenomeno, con l’assessore alla Sanità, Letizia Moratti, che ha affermato che l’intramoenia deve essere una libera scelta e non l’unica via per ottenere visite in tempi ragionevoli. Peccato che i buoi siano scappati dal recinto da un pezzo.

Non mancano poi casi eclatanti che dimostrano come, in determinate realtà locali, riuscire a ottenere visite in regime di servizio sanitario nazionale sia diventato quasi impossibile. In un’azienda della Regione Sicilia il rapporto Alpi/istituzionale è passato dal 70% nel 2019 al 296% nel 2020″, relativamente alle visite urologiche è stato registrato “un peggioramento in un’azienda marchigiana dal 147% nel 2019 al 228% nel 2020” e relativamente alle ecografie ostetriche e ginecologiche è stato rilevato un peggioramento in un’azienda campana passata dal “507% nel 2019 al 524% nel 2020”.

A tal proposito, una lettura dei numeri riportati è stata offerta da Valeria Fava – responsabile coordinamento politiche della salute di Cittadinanzattiva – ovverosia l’organizzazione che ha contribuito a predisporre le “linee guida per il monitoraggio ex ante delle prestazioni prenotate in Alpi”. «In alcune realtà il rapporto tra prestazioni erogate in intramoenia e nel canale istituzionale (che non deve superare il 100%, ossia per ogni prestazione erogata nel canale intramurario ce ne deve essere almeno una erogata nel pubblico) evidenzia che per i cittadini il ricorso all’intramoenia non è una libera scelta ma una scelta obbligata» ha affermato [4] Fava, sottolineando inoltre che – relativamente al numero minore di prestazioni sanitarie erogate nel 2020 – i dati «confermano la necessità di recuperare quanto è stato sospeso a causa del Covid e la necessità per i cittadini di tornare alle cure ordinarie».

[di Raffaele De Luca]