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La protesta di Ghedi: il paesino lombardo pieno di bombe nucleari americane

A una manciata di chilometri da Brescia si trova un comune di poche migliaia di anime, dove i venti di guerra tra Russia e Ucraina mettono la popolazione in allerta più che in ogni altro luogo d’Italia. Si tratta della cittadina di Ghedi, la cui base militare conserva circa una ventina di testate nucleari di proprietà statunitense. Per tale motivo la base (e l’intera cittadina) si trova in stato di preallarme dal giorno dell’esplosione del conflitto. Domenica 6 marzo qualche centinaio di persone si sono ritrovate al suo esterno, per chiedere la fine del conflitto la cui rapida escalation ha reso improvvisamente questo piccolo paese un obiettivo sensibile.

Sono appena 18 mila gli abitanti di Ghedi, una piccola cittadina a una ventina di chilometri da Brescia. Un minuscolo centro abitato, diventato improvvisamente obiettivo sensibile nel contesto della guerra tra Ucraina e Russia: si stima infatti che siano almeno una ventina le testate nucleari ospitate dalla base militare locale, che si vanno a sommare alle altre (una trentina) di Aviano, in provincia di Pordenone. Per questo motivo, domenica pomeriggio è stato organizzato un sit-in [1], durante il quale si è protestato contro una guerra di interessi economici, contro la censura mediatica e culturale, contro le ipocrite e discriminatorie politiche di accoglienza [2] dei profughi e contro l’invio di armi in Ucraina.

Dalla base di Ghedi partirà infatti una parte delle armi che il Governo italiano, evitando abilmente il confronto con il Parlamento e con l’opinione pubblica, ha deciso di inviare [3] in Ucraina. Lista peraltro secretata, della quale non è possibile conoscere con certezza il contenuto, anche se è certo che si tratti di armi pesanti e strumenti di guerra. Un modo di certo curioso di esportare la pace.

Secondo un report di Greenpeace [4], pubblicato nel dicembre 2020, nelle basi di Aviano e Ghedi sono custodite in tutto una quarantina di bombe. Nel caso di un eventuale attacco a queste basi, il fungo atomico generato potrebbe coinvolgere dalle 2 alle 10 milioni di persone, a seconda dell’intensità dei venti e dei tempi di intervento. L’Italia si configura (secondo le stime, poiché non esistono dati ufficiali al riguardo) il Paese che ha in custodia il maggior numero di testate nucleari di proprietà statunitense. In base agli accordi bilaterali stretti con gli Stati Uniti per la cosiddetta “condivisione nucleare”, i Paesi NATO sono tenuti a ospitare alcune delle testate nucleari e, in caso di esplosione di un conflitto, i cacciabombardieri sono tenuti a sganciare le bombe in caso di necessità. Per questo motivo si tengono esercitazioni anche in tempo di pace, come quella che si è svolta a Ghedi nell’ottobre del 2021. Tuttavia, questo in Italia avviene nonostante il nostro Paese abbia firmato e ratificato il Trattato di non proliferazione nucleare [5], con il quale si è impegnato per il disarmo e la non proliferazione nucleare.

L’esercitazione, dal nome Steadfast noon [6]è avvenuta contestualmente all’ammodernamento e all’ampliamento della base di Ghedi, dove sono ora custodite le bombe B61-12 di ultima generazione e dove verranno ospitati i nuovissimi cacciabombardieri F-35A adibiti al loro trasporto. L’operazione era stata definita dalla NATO volta a “garantire che il deterrente nucleare della NATO rimanga sicuro, protetto ed efficace”.

Come ricorda Angelo Mastandrea su L’Essenziale del 5 marzo, a Ghedi ha anche sede la fabbrica di bombe Rwm, che il governo Renzi nel 2016 aveva venduto nella quantità di 20 mila ordigni all’Arabia Saudita. L’esportazione è stata sospesa nel 2019 dal Governo Conte e definitivamente interrotta nel 2021 dopo che frammenti di quelle bombe sono stati ritrovati tra le macerie di un’abitazione in Yemen, dove una famiglia di sei persone è stata sterminata.

Dall’esplosione del conflitto in Ucraina, la base di Ghedi si trova in stato di preallarme. E, per il momento, il procedere del conflitto ed i suoi esiti rimangono ancora incerti.

[di Valeria Casolaro]