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La Nuova Zelanda lancia la coalizione contro i robot killer

Mezzi blindati dotati di cannoni, droni volanti che si lanciano a grande velocità contro i nemici in fuga, battelli senza equipaggio che circondano natanti in movimento: questo è il fosco panorama delle armi autonome odierne, un panorama che è reso ancora più claustrofobico dal fatto che i Governi coinvolti si dimostrano restii a discutere nuovi trattati che vadano a normare l’applicabilità di questi ancora inusuali strumenti bellici.

Nell’oceano di maliziosa ignavia, si erge come un’anomalia la Nuova Zelanda, nazione che ha orgogliosamente dichiarato [1] di voler combattere la diffusione e l’utilizzo dei cosiddetti “killer robot”. Phil Twyford, Ministro del Disarmo e del Controllo delle Armi, ha evidenziato come il delegare la responsabilità degli omicidi a delle macchine sia esplicitamente in opposizione agli «interessi e ai valori» della nazione, tacitamente creando una bilancia etica su cui soppesare le motivazioni dei Paesi maggiormente belligeranti.

Nonostante una fetta significativa del mondo accademico stia infatti chiedendo l’imposizione di limiti alle armi autonome e all’uso militare delle intelligenze artificiali, le Amministrazioni che più si dicono preoccupate dei killer robot – Cina, Russia e Stati Uniti su tutte – sono anche quelle che vi dedicano maggiori risorse, considerandone lo sviluppo un vero e proprio «imperativo morale [2]». In sostanza, le principali avanguardie militari sostengono la necessità di portare avanti la ricerca bellica proprio come forma di difesa dalla tecnologia automatizzata altrui, cosa che crea un circolo vizioso che ha il retrogusto della corsa alle armi.

Inutile dire che la Nuova Zelanda non possiede di per sé l’incisività diplomatica necessaria a piegare le posizioni delle grandi potenze, tuttavia lo scenario che si prospetta è quello di una «coalizione di Stati, di esperti e della società civile» a cui Wellington vorrebbe presiedere. Twyford non è infatti il primo a esprimersi avversamente ai killer robot, tuttavia la sua voce intensifica non poco le potenzialità di un coro che fino a oggi si è dimostrato pressoché inerme, con il risultato che si potrebbero presto aprire diverse strade diplomatiche alternative ai confronti ospitati dalle Convention on Conventional Weapons [3] (CCW).

Già si parla di un possibile trattato che potrebbe o meno cadere in seno alle Nazioni Unite. Una legge internazionale generata da un processo indipendente potrebbe coinvolgere un bacino maggiore di Governi, molti dei quali – non possedendo armi autonome – sarebbero ben felici di appoggiare standard severi sull’applicazione degli strumenti presi in analisi. D’altro canto, una più lenta e complessa contrattazione dell’Assemblea Generale ONU avrebbe la possibilità di garantire delle linee guida maggiormente solide e rilevanti sul piano della politica internazionale. Tra le due opzioni, la prima sembra fornire ai detrattori dei killer robot concrete opportunità di successo, con gli osservatori che teorizzano un accordo che possa somigliare al trattato di Ottawa, trattato che impone un giro di vite alle mine antiuomo, ma che Cina, Russia e Stati Uniti si sono ben visti dal firmare.

La lotta neozelandese contro le armi autonome è appena iniziata, ma la nazione ha una lunga storia di battaglie per la demilitarizzazione ed è ormai abituata a litigare con l’alleato statunitense per questioni di armamenti; la possibilità che la “discesa in campo” di Wellington sia in grado di avviare un percorso di regolamentazione dei killer robot è reale, ora non resta che trovare qualcuno che possa farsi garante diplomatico di una normativa che soffochi le manovre militari spaziali.

[di Walter Ferri]