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Il Regno Unito appalta la transizione ecologica a Bill Gates

Il Regno Unito ha annunciato l’intenzione di dare il via ad un pacchetto di investimenti da 400 milioni di sterline insieme al plurimiliardario Bill Gates. L’obiettivo sarà quello di promuovere lo sviluppo di nuove tecnologie verdi. La collaborazione – ha annunciato [1] il governo – riguarderà progetti di cattura e stoccaggio del carbonio, i sistemi di accumulo energetico, l’aviazione a zero emissioni e l’idrogeno verde. Per sancire l’accordo il magnate americano è stato ricevuto con tutti gli onori alla presenza della famiglia reale, mentre nelle strade non sono mancate le dimostrazioni di protesta.

Lunghi e densi di retorica gli scambi di complimenti e buone intenzioni ambientaliste del primo ministro britannico e del fondatore di Microsoft. Il primo ha definito [2] l’accordo «essenziale ad alimentare una rivoluzione industriale verde e a sviluppare tecnologie emergenti essenziali per raggiungere gli obiettivi climatici del governo» mentre il magnate americano ha sottolineato che la cooperazione con il governo inglese abbia come obiettivo la creazione di soluzioni climatiche «convenienti e accessibili».

La transizione ecologica ha bisogno di soldi, chiaro, ed investire per realizzarla è giusto e doveroso. Tuttavia sulla conversione ambientalista di alcuni multimiliardari è lecito dubitare, tanto più se diversi indizi lasciano sospettare che si tratti di evidenti atteggiamenti di facciata. Al riguardo di Bill Gates, ad esempio, giusto qualche mese fa è emerso come abbia finanziato un vasto progetto estrattivo [3] in Groenlandia dalle conseguenze ambientali potenzialmente gravi.

Da tempo i colossi dell’economia estrattiva stanno riconvertendosi alla causa climatica. Il rischio però è che la palla passi esclusivamente ai soliti colossi del settore energetico, i quali, da un lato, si impegnano per la transizione ma, dall’altro, portano avanti i loro interessi. Per dimostrare questa tesi non serve nemmeno uscire dai nostri confini. Basti pensare alle pressioni esercitate da Eni [4] sulle istituzioni governative italiane per assicurarsi una cospicua fetta dei fondi destinati al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Oppure, all’intensa partecipazione di questa ed altre multinazionali analoghe alla Pre-Co26 [5]. Veicolate su comunicati stampa e giornali come iniziative in favore dell’ambiente, quello a cui stiamo assistendo appare sostanzialmente come il progressivo passaggio da un capitalismo nemico dell’ambiente ad un capitalismo “green”. Una transizione obbligata all’interno della quale le aziende che fino ad oggi hanno provocato il problema cercano di accreditarsi anche come risolutrici.

C’è poi da dire, in ultima analisi, che la transizione ecologica non può passare solo da una trasformazione del settore industriale. Di fatto però, a livello globale, le transizioni in atto di ecologico hanno ben poco. Investire in nuove impianti, seppur sostenibili, conviene. Tra l’altro, ora come non mai. Mentre finanziare progetti di riqualificazione ambientale, no. Motivo per cui i fondi destinati alla tutela e al ripristino degli ecosistemi, alla conservazione della biodiversità, alla promozione e valorizzazione del paesaggio agricolo tradizionale, passano sempre in secondo piano. Il tornaconto economico, quindi, appare sempre più requisito essenziale per far sì che la via della sostenibilità venga percorsa.

[di Simone Valeri]