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Caso De Donno: la Procura apre un’inchiesta per istigazione al suicidio

La procura di Mantova ha aperto formalmente un’inchiesta sulla morte di Giuseppe De Donno, l’ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma che per primo aveva iniziato a sperimentare la cura contro il Covid tramite la terapia basata sulla trasfusione di plasma iperimmune. Il corpo del medico 54enne, che si sarebbe suicidato impiccandosi, è stato trovato martedì pomeriggio dai familiari nella sua casa di Eremo di Curtatone, in provincia di Mantova. Tuttavia, al momento non si hanno certezze sulle motivazioni alla base del tragico gesto di De Donno, che non avrebbe lasciato alcun messaggio. Perciò, i giudici hanno intenzione di capire se dietro l’estrema decisione possano esserci responsabilità da parte di terzi: nello specifico, gli inquirenti vogliono fare luce sull’eventuale reato di istigazione al suicidio e comprendere se qualcuno possa aver indotto l’ex primario a togliersi la vita. Nel frattempo, martedì sera i carabinieri e il magistrato hanno sentito i familiari, la moglie ed i due figli, mentre i cellulari ed il computer di De Donno sono stati messi sotto sequestro.

L’ex primario, a detta di alcune persone a lui vicine, stava attraversando un periodo difficile, ma dopo essersi dimesso dall’ospedale ed aver iniziato, il 5 luglio scorso, la nuova attività di medico di base, sembrava essersi risollevato. In tal senso, il direttore generale di Asst Mantova Raffaele Stradoni ha affermato [1]: «Con il suo nuovo incarico aveva detto di stare meglio. Ora la notizia della sua morte ha sconvolto anche noi colleghi dell’ospedale». Ha inoltre aggiunto che De Donno «stava combattendo con una sua grave situazione di difficoltà personale» che, a detta del direttore, «nulla c’entrava con il suo lavoro da medico e con il suo studio e sperimentazione sul plasma iperimmune come cura contro il Covid».

Alcuni colleghi infatti sostengono che De Donno sia stato profondamente segnato dalla scarsa attenzione data alle sue ricerche sulla terapia a base di plasma, la quale inizialmente sembrava potesse salvare i pazienti Covid gravi prelevando il sangue dai contagiati guariti ed infondendolo nei malati. A tal proposito, De Donno credeva che la sua cura fosse molto efficace e in una intervista rilasciata a maggio affermava che fosse riuscito ad azzerare i decessi tra i suoi pazienti («48 malati guariti da una cura che non costa nulla. Eppure mi ritrovo i Nas in corsia», aveva dichiarato). Questi ultimi, stando alle sue parole erano arrivati in ospedale per un motivo a lui ignoto. Tuttavia, il dottore era alquanto insospettito, ed aveva affermato: «Le cose non avvengono a caso. Se qualcuno crede di scoraggiarmi, non ci riuscirà. La comunità scientifica dovrà rispondere ai cittadini di questo».

Giusto sottolineare il fatto che le ricerche scientifiche fino ad ora svolte, anche all’estero, sull’efficacia del plasma iperimmune contro il Covid-19 non hanno portato a risultati particolarmente brillanti, meno convincenti di altre terapie come quelle basate sugli anticorpi monoclonali che l’Unione Europea si appresta ad approvare [2]. Negli Usa, ad esempio, dove la terapia sul plasma iperimmune venne autorizzata dall’FDA, portando al trattamento di 105.000 pazienti affetti da Covid19, venne riscontrato [3] che l’11% dei pazienti non intubati che avevano ricevuto il plasma morirono entro 7 giorni dalla trasfusione, rispetto al 14% di quelli che avevano ricevuto il plasma con basse cariche anticorpali: un miglioramento non particolarmente significativo, che aveva comunque portato all’autorizzazione d’emergenza della terapia in quanto priva di pericoli per la salute. Risultati analoghi anche quelli raccolti in Italia dall’Aifa, [4] che nell’aprile scorso aveva affermato che non era «stata osservata una differenza statisticamente significativa» tra i pazienti curati rispetto agli altri. Lo stesso Donald Trump, che aveva incentivato la ricerca sul plasma iperimmune quando era presidente Usa, preferì tuttavia sottoporsi alle cure con anticorpi monoclonali quando contrasse il virus. Risultati che però non avevano affatto convinto De Donno, il quale continuava a ritenere che gli studi non fossero stati effettuati in modo corretto.

Tornando alle ipotetiche ragioni del suicidio, lo stesso medico aveva denunciato [5] di aver «ricevuto tantissime critiche e tantissimi attacchi», fenomeno a suo parere inevitabile nel momento in cui «ci si espone mediaticamente». Tuttavia, De Donno si diceva pronto a tutto per raggiungere il suo fine, ossia quello di «cercare di salvare più vite possibile». Poi qualche cosa deve essere successo, forse – è quanto evidentemente ipotizzano i magistrati che hanno aperto l’inchiesta – a causa di possibili pressioni esterne.

[di Raffaele De Luca]