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Cuba, gli Usa avviano le operazioni di ingerenza: obiettivo “rivoluzione colorata”

Negli ultimi giorni numerose proteste sono scoppiate nelle principali città cubane. I manifestanti hanno denunciato il governo comunista di Díaz-Canel per la mancanza di cibo e vaccini e hanno inneggiato alla libertà e all’anti-comunismo. Ovviamente, gli Stati Uniti si sono prontamente schierati dalla loro parte, mentre il governo cubano ha equiparato le proteste a delle provocazioni [1].

Le manifestazioni sono state a tratti anche brutali, con episodi di violenza contro la polizia e atti di vandalismo. Alle base del risentimento ci sono le condizioni economiche di oggettiva difficoltà in cui versa il popolo cubano. Cuba è un paese economicamente in difficoltà. L’amministrazione americana ha ampliato l’embargo economico e commerciale con il risultato che negli ultimi tempi Cuba ha trovato grosse difficoltà anche ad importare materie prime di base,  comprese le siringhe per somministrare i vaccini anti-covid [2], pur avendo mandato i suoi medici in giro per tutto il mondo (anche in Italia [3]), nel mezzo della pandemia nel nome dell’internazionalismo sanitario.

Forse è più proprio dire che Cuba è un paese che è stato impoverito dalle sanzioni spietate che gli sono state imposte nel corso di decenni. Gli Stati Uniti, il paese più ricco del mondo, ha fatto di tutto per isolare il paese e fargli terra bruciata attorno. Nel 1962 ha imposto l’embargo e ancora oggi rifiuta di concedere al vicino anche beni di prima necessità. Secondo il Cuban Democracy Act [4], l’embargo sarà tolto solo nel momento in cui Cuba, tra le altre condizioni, instaurerà un regime economico di libero scambio – ovvero, quando smetterà di essere socialista. Ai paladini della “libertà” evidentemente non interessa che l’ordinamento di Cuba sia stato approvato dai cittadini nel febbraio 2019, quando l’85% degli aventi diritto ha approvato la nuova Costituzione [5] che ribadisce la sovranità della nazione e il suo ordinamento economico.

La questione è infatti fondamentalmente economica. Si tratta di socialismo contro capitalismo. Molti manifestanti sfoggiavano infatti bandiere americane e i fatti hanno avuto una risonanza piuttosto estrema negli Stati Uniti, specie tra i conservatori.

Che gli Stati Uniti strumentalizzino la situazione cubana per sostenere politiche anti-comuniste volte a rovesciare il governo locale non è certo una novità. Qualsiasi episodio di violazione dei diritti umani, anche se isolato, è sufficiente [9] per attaccare e screditare il paese. Un modo di fare ipocrita, dimostrato che violazioni dei diritti umani ben più gravi siano ampiamente tollerate da parte di tutti i governi alleati, a partire dalla Colombia [10] e dal Qatar [11].

Di fronte alle proteste il presidente Biden ha rilasciato dichiarazioni apparentemente moderate: «Il popolo cubano sta coraggiosamente chiedendo il riconoscimento di diritti fondamentali e universali dopo decenni di repressione e di sofferenze economiche dovute a un regime autoritario». Ma nella pratica l’amministrazione americana si muove in modo molto diverso. Ci sono diversi piani su cui agisce questa volontà di rovesciare il governo di Cuba. Recentemente, per esempio, dopo che nel paese caraibico è stato ampliato l’accesso alla rete internet, l’occidente e i gruppi legati alla “controrivoluzione” stanno investendo nel gruppo rap anti-governativo Patria y Vida, acclamato in tutto l’Occidente come simbolo di un desiderio di democrazia [12] che cresce all’interno del popolo cubano. I loro video hanno fatto milioni di visualizzazioni. Tutto questo si aggiunge ad un tentativo incessante di isolare il paese, privandolo di accesso alle risorse, impedendo ai cubani di viaggiare per andare a trovare i loro parenti. Se tutto questo non basta, si sostengono le proteste all’interno. È la teoria e la pratica delle cosiddette “rivoluzioni colorate”: agire su governi sgraditi provocando cause di malcontento tra la popolazione sulle quali fare leva per fomentare una ribellione anti-governativa, così da indebolire lo stato dall’interno mentre dall’esterno cresce su di esso la pressione comunicativa, militare, politica ed economica. Una strategia in larga parte spiegata da documenti ufficiali americani, come lo Strategic Competition Act [13].

[di Anita Ishaq]