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Tutti uniti per il calcio, ok ci sta! Ma se diventassimo popolo anche per le cose importanti?

Ancora una volta l’Italia si è stretta attorno alla propria nazionale di calcio. Le immagini delle piazze durante la finale degli Europei, vinta contro l’Inghilterra, ci restituiscono le scene di migliaia di connazionali festanti, per una volta strappati a vite sempre più orientate al privato per una nottata di dimensione collettiva. Tutto molto bello, sul serio. I facili moralismi dei bastian contrari a tutti i costi che bacchettano l’incongruenza del celebrare una squadra di milionari viziati non hanno senso. Piaccia o meno, il calcio è sport nazionale ed è normale, legittimo e anche bello che una nazione si riversi in strada a celebrarne il successo. E poi, dopotutto, non si capisce per quale ragione scatenarsi nella festa per una occasione ludica dovrebbe impedire ad una persona di essere anche conscia e impegnata sulle cose importanti. La storia è piena di grandi personaggi, che hanno lottato in prima persona per cambiare le cose e che erano anche ferventi tifosi.

Una volta, dopo la vittoria dei mondiali di calcio del 1982, un cronista chiese al presidente Pertini – uno che la lotta per i suoi ideali, prima come partigiano e poi in tempo di pace, non l’ha certo mai mancata – se i festeggiamenti non fossero una esagerazione che rischiava di far dimenticare agli italiani i problemi reali. Il presidente si arrabbiò, affermando [1]: «ma ci dovrà pur essere una sosta dalle preoccupazioni. Sarebbe come andare a dire a chi è felice alla domenica “ma cos’hai da essere felice che domani sarà lunedì?”. Oggi pensiamo alla domenica, il lunedì lo affronteremo a suo tempo». È giusto, e se tanti la loro “domenica” vogliono passarla gioendo o soffrendo per il calcio non si capisce cosa ci sia da obiettare.

Tuttavia non si può non notare come gli italiani sembrino aver perso ormai ogni altra possibile dimensione collettiva se non legata a qualche cosa di ludico. Si scende in strada per il calcio, ma per tutto il resto – al massimo – c’è un post di protesta su Facebook? È questa la cosa che non ha senso. Così si rischia di diventare sempre più un popolo di professionisti della lamentela, che ha dimenticato come scendere uniti in piazza possa servire anche per cambiare le cose o per pretendere misure politiche che non vadano contro gli interessi collettivi. Una nazione che, in definitiva, accetta ogni cosa pensando non ci sia nulla che si possa fare: governi non eletti a ripetizione, l’introduzione di misure che erodono i diritti sul lavoro, limitazioni alle libertà personali senza precedenti.

Eppure non è così. In Francia, ad esempio, la determinazione popolare nelle proteste contro la nuova legge sulla sicurezza che impediva ai cittadini di filmare le forze dell’ordine ha portato alla sua modifica [2] e sempre in Francia – popolo che in quanto a fermezza nel difendere i propri diritti andrebbe preso ad esempio – i vari governi da anni non riescono a far passare una riforma delle pensioni molto più timida di quella “lacrime e sangue” varata nel 2011 in Italia dalla ministra Fornero, perché ogni volta che ci provano si trovano centinaia di migliaia di francesi in piazza e scioperi in tutti i posti di lavoro. Anche in Spagna, dopo le proteste seguite all’arresto per reati di opinione del rapper Pablo Hasél, il governo si è dovuto impegnare [3] a rivedere le norme contro la libertà di espressione. In Italia, pure, non mancano gli esempi: poche settimane fa i portuali di Ravenna sono riusciti a fermare i carichi d’armi che salpavano verso Israele [4], mentre in Val di Susa, da oltre vent’anni, la determinazione e l’unità dei cittadini impedisce la costruzione del Tav. Insomma, celebriamo pure i successi nello sport, ma ricordiamo che se utilizzassimo una frazione della stessa determinazione per cercare di cambiare le cose che non vanno avremmo molto più spesso delle buone ragioni per festeggiare, magari anche per cose che contano davvero.