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Recovery Plan, i colossi fossili ci hanno messo lo zampino

Secondo un’inchiesta di ReCommon, “tramite una capillare attività di lobbying“, il settore dei combustibili fossili è riuscito a imporsi alle decisioni del governo italiano. In collaborazione con la rete europea Fossil Free Politics, l’associazione ha redatto il rapporto “Ripresa e Connivenza [1]” dove si svela come il comparto fossile italiano, capeggiato da Eni e Snam, sia riuscito ad incassare una cospicua parte dei fondi di ripresa.

Da luglio 2020, mese in cui è stato annunciato il Recovery Plan, ad oggi, i colossi petroliferi italiani sono riusciti a ottenere almeno 102 incontri con i ministeri incaricati di redigere il piano. Una media – rende noto il documento – di oltre 2 incontri a settimana. Tramite richieste di accesso agli atti ed analizzando le agende dei ministeri, ReCommon è riuscita ad evidenziare come solo le multinazionali Eni e Snam abbiano ottenuto 20 incontri ufficiali a testa. Eni in questo modo, ad esempio, ha potuto pubblicizzare le proprie discutibili soluzioni alla crisi climatica. Come il caso dell’idrogeno, ad oggi prodotto per oltre il 90% a partire dagli idrocarburi gassosi, per cui ne avevamo già spiegato i controversi interessi [2] del ‘cane a sei zampe’. Stesso discorso per i – rischiosi ed ancora privi di efficacia dimostrata – progetti di Cattura e Stoccaggio dell’anidride carbonica (Ccs).  Snam, dal canto suo, controllando la rete di gasdotti in Italia e nel resto d’Europa ha avuto modo di promuovere le proprie iniziative col solo fine di prolungare la vita delle sue infrastrutture fossili, nonché di realizzarne di nuove. «Come le decine di stazioni di rifornimento a idrogeno per treni e camion incluse nel PNRR – denunciano gli autori del report – utili solamente a rallentare un reale cambio di modello nei trasporti».

In tutto ciò, le responsabilità politiche non mancano. Cruciale, infatti, è stata la fondazione del Ministero della transizione ecologica guidato da Roberto Cingolani. Una conversione in linea con il resto d’Europa che in Italia, tuttavia, ha presto dato vita ad una visione industriale dell’ambiente [3]. Dalla sua nascita lo scorso febbraio – ha svelato il rapporto – il ministero ha avuto oltre tre incontri a settimana con il comparto fossile, di cui 18 con la presenza del ministro in persona. In poco più di un mese, Cingolani ha ricevuto l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e quello di Snam, Marco Alverà, ben quattro volte, per discutere dei progetti da inserire all’interno del Recovery Plan. Quel che ne è risultato è stato che, rispetto alla bozza iniziale del Piano, i finanziamenti destinati a “promuovere la produzione, la distribuzione e gli usi finali dell’idrogeno” erano lievitati di oltre 3 miliardi. Fortunatamente poi, in quanto la prima versione fragorosamente bocciata dalla Commissione europea, ridimensionati fino alla comunque mastodontica cifra di 3,19 miliardi di euro. Mastodontica non perché non conforme ai potenziali bisogni, ma poiché destinata ad arricchire, in parte se non totalmente, i soliti colossi del settore energetico.

«È disarmante la facilità con la quale le lobby del fossile siano riuscite a influenzare le scelte dei governi rispetto a un Piano di investimenti che condizionerà non poco il futuro del Paese. Ci fa comprendere – ha dichiarato Alessandro Runci di ReCommon, autore del rapporto – la necessità di riconquistare dal baso spazi di democraticità, senza i quali sarà impossibile vincere battaglie epocali come quella per la giustizia climatica».

[di Simone Valeri]