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“Ci uccidono, ma la lotta continua”: cosa succede in Colombia nel silenzio internazionale

Sono scene drammatiche quelle che arrivano dalla Colombia. In sette giorni di sciopero generale [1], a seguito della volontà del governo guidato da Iván Duque di attuare una riforma fiscale che avrebbe colpito in maniera pesante i ceti medio-bassi, si contano più di 30 morti, un migliaio di feriti e centinaia di persone arrestate. Il 2 maggio Duque ha fatto marcia indietro annunciando il ritiro del progetto e il Ministro dell’Economia, Alberto Carrasquilla, si è dimesso. Questo non è bastato a placare la protesta. Infatti, la situazione sociale ed economica della Colombia era già grave prima della pandemia da Covid-19, che ha ulteriormente peggiorato la cosa, e la riforma voluta dal delfino del potente ex Presidente Uribe Vélez è stata la gocciolina di un vaso ormai più che colmo. La repressione violenta, brutale e armata del disagio sociale sono la manifestazione lampate di cosa sia il sistema di potere colombiano.

La pace del 2016 siglata tra il governo colombiano e le FARC ha messo fine ad una guerra civile [9] che ha causato 220.000 vittime e 7 milioni di sfollati. Mentre le vittime militari sono diminuite drasticamente, attivisti per i diritti umani, leader sociali ed ecologisti – coloro che stanno cercando di attuare la pace a livello di base – vivono nella paura costante. In questi anni si sono registrati migliaia di uccisioni [10] di indios e di attivisti eco-sociali.

Omicidi selettivi, massacri e spari sui manifestanti hanno generato un clima da guerra civile che rappresenta solo l’ultima ondata di violenza che, dalla firma degli Accordi di Pace del 2016 ad oggi, ha ucciso più di mille attivisti ed attiviste sociali. Tra i territori più colpiti c’è la regione del Cauca dove si è sviluppata una delle resistenze indigene più importanti del paese e un modello di governo autonomo e alternativo alla violenza dello Stato e dei gruppi armati. È quanto raccontato da Manuel Rozental in un’intervista [14] in cui spiega quali siano i molteplici interessi in gioco nel paese e come ci sia una fitta rete di intrecci tra varie organizzazioni e perché oggi vengono uccisi così tanti attivisti impegnati dal basso per le questioni sociali ed ecologiche.

Un ruolo importante lo giocano senz’altro i potenti cartelli del narcotraffico, con uomini e amicizie ai massimi livelli dello stato e dell’élite del paese, in costante guerra tra di loro. L’ex Presidente Uribe Vélez è stato più volte accusato di essere alleato del cartello di Medellin di Pablo Escobar, come si può leggere anche in un rapporto della DIA del 1990 [17]. Rozental, membro di Pueblos en Camino [18], attivista per le lotte comunitarie e per la difesa della terra, nell’intervsita dice: «L’ex-presidente Uribe Vélez è la personificazione di un sistema di potere che si sostiene grazie all’appropriazione dei terreni per produrre cocaina». Quindi, si capisce bene il perché di tanta ostilità nei confronti di chi vuole proteggere la propria terra e che vorrebbe poter governarsi autonomamente nella politica, nell’economia e nelle questioni sociali. Anche un nostro connazionale, Mario Paciolla [19], lo scorso anno ha perso la vita in quello che, a tutti gli effetti, sembra un nuovo capitolo della guerra in Colombia.

Perché nessuno dei grandi media ha riportato quanto sta accadendo in Colombia? Perché i politici non hanno fatto a gara a condannare e lanciare moniti (o hashtag)? Perché tutto tace? Provate a immaginare se tutto ciò fosse accaduto in qualche altro paese. Vorrà forse dire qualcosa il fatto che la Colombia, unica nell’America Latina, dal 2017 [20], è partner globale della NATO?

[di Michele Manfrin]