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Danimarca, per i migranti non c’è scelta: assimilazione o rimpatrio (siriani inclusi)

Negli ultimi anni, la Danimarca ha usato il pugno di ferro in fatto di immigrazione. Soprattutto a partire dall’elezione, nel 2019, della socialdemocratica Mette Frederiksen – che guida un governo di coalizione con la sinistra radicale – il paese ha preso una strana svolta: economicamente porta avanti politiche socialiste, ma in fatto di identità nazionale e immigrazione ha assunto caratteri marcatamente conservatori.

L’ultima decisione, presa martedì 20 aprile da Frederiksen insieme ad una coalizione di partiti liberali e conservatori, è quella di porre ulteriori limiti nel concedere la cittadinanza. Non si parla più nemmeno di “integrazione,” ma di “assimilazione.” Chiunque voglia essere cittadino danese deve mostrare di sposare i “valori danesi.” Criminali e disoccupati sono quindi automaticamente esclusi. Le definizioni sono molto rigide. È “criminale” chiunque abbia ricevuto multe cumulative pari a 3000 corone danesi, o 485 euro, per reati commessi. È “disoccupato” chiunque non abbia lavorato continuativamente per 3 e mezzo dei 4 anni precedenti alla richiesta di cittadinanza. Secondo il ministro dell’integrazione, lo scopo di queste regole è garantire che chi ottiene la cittadinanza sia già pronto ad essere integrato, avendo già dimostrato di sposare i valori danesi. Il governo voleva anche stabilire un limite per il numero di richieste di cittadinanza accettate, ma la misura non è stata approvata.

A marzo, il governo aveva preso un’altra misura molto rigida per contenere l’immigrazione: un numero massimo di stranieri per quartiere. Nel 2018, il governo precedente aveva introdotto un sistema molto controverso di classificazione dei quartieri a seconda della loro “vulnerabilità”. Quartieri con un reddito basso, un livello di istruzione sotto la media, una criminalità elevata ed un alto tasso di disoccupazione erano stati ribattezzati “ghetti.” Il cosiddetto “pacchetto ghetto” di Frederiksen, un emendamento alla riforma esistente, prevede l’introduzione di un numero massimo di residenti stranieri per quartiere (fissato al 30%). La motivazione è quella di evitare l’emergere di “società parallele” e quindi di nuovi ghetti.

Ma la durissima linea danese in fatto di immigrazione non si riduce al concetto di “assimilazione.” Lo scopo ultimo è il rimpatrio, per arrivare, come ha dichiarato Frederiksen, ad accogliere “zero” richiedenti asilo. Questa settimana, la Danimarca si è infatti distinta in quanto primo paese europeo a voler revocare i permessi di soggiorno ai rifugiati siriani, ricevuti temporaneamente, per rimpatriarli. Tra questi rifugiati vi sono anche 70 bambini. La decisione è stata presa perché, secondo le autorità danesi, la situazione in Siria è in questo momento sufficientemente sicura – nonostante il paese non sia ancora uscito da una guerra durata 10 anni [1], che ha creato milioni di sfollati e danni economici stimati in 442 miliardi di dollari totali, una cifra enorme che fa sì che non vi siano possibilità di una vita degna in un Paese devastato da una guerra voluta e fomentata dallo stesso Occidente.

[di Anita Ishaq]