A novembre, venti anni fa, nei prati di Venaus c’era la neve; cadeva fitta e durava, sull’erba di ghiaccio, sulle tende del presidio di lotta, sulle nostre vite intirizzite ma determinate a resistere. Poco potevano, nei giorni e nelle notti sotto zero, i fuochi accesi nei bidoni, le pentole di bevande calde, i minestroni messi a cuocere sui focolari improvvisati. Eppure l’opposizione popolare contro il progetto TAV durava, cresceva di ora in ora, acquistava volontà e coscienza, si faceva sapere e azione collettiva.
La pratica del “fermare il TAV si può, fermarlo tocca a noi” non era nata all’improvviso, ma veniva da decenni di controinformazione sull’inutilità della grande mala opera e sui suoi costi enormi, non solo economici, ma sociali e ambientali. Il 2005 che terminava nel gelo della Val Cenischia era stato un intenso anno di lotte in tutta la Valle contro gli espropri dei terreni, per impedire le prime trivellazioni geognostiche. Aveva visto la nascita dei presidi nei prati di Borgone e Bruzolo, l’epica battaglia del Seghino, sulla via del Rocciamelone, contro la prima occupazione militare armata a Mompantero.

Ma fu a Venaus, vittima designata per il primo cantiere del tunnel esplorativo – poi realizzato alla Maddalena di Chiomonte – che nacque e resistette per dieci, intensi giorni, la “Libera Repubblica di Venaus”. Contro la violenza del sistema e la disinformazione dei mass media, trovammo con noi il mondo delle persone comuni, gli operai, i contadini, gli studenti delle università di tutto il Paese. Arrivarono i vecchi partigiani che avevano difeso quegli stessi luoghi contro i fascismi di sempre. Anche i sindaci della Valle, davanti alla tracotanza dello Stato di polizia, si fecero movimento. La notte del sei dicembre piombarono sul presidio ruspe, blindati, manganelli: un esercito in assetto antisommossa che randellò le persone, devastò tende ed effetti personali, fece roghi di libri e bandiere. La Valle, riunita in assemblea permanente, rispose alzando barricate e occupando strade statali, autostrada e ferrovia, così da impedire la circolazione delle truppe.
E spuntò l’alba dell’8 dicembre, il giorno della liberazione di Venaus. Una moltitudine di almeno 30mila persone si avviò verso la Val Cenischia: un corteo silenzioso, senza musiche né slogan. All’ingresso della valle trovammo il blocco di polizia e carabinieri; furono spazzati via da una valanga di corpi, armati solo della propria rabbia. Così ci riprendemmo ciò che, con amore e sacrificio, avevamo difeso.
Vent’anni sono passati. Molti di noi di allora non ci sono più, qualcuno se l’è preso il tempo inesorabile, altri le vicende della vita, ma ora ci sono i nostri figli e nipoti. La lotta deve continuare, perché se nulla è stato fatto dell’opera vera e propria, la devastazione sta avanzando con i cantieri propedeutici.

Nell’alleanza di TELT (la Società promotrice del TAV) e SITAF, la società autostradale, i profitti si uniscono per mettere a ferro e fuoco la Valle. Così l’ex autoporto di Susa cambia destinazione e diventa discarica a cielo aperto per i detriti di amianto e uranio, mentre un nuovo autoporto è stato costruito a San Didero, abbattendo il bosco che ricopriva e neutralizzava i veleni delle acciaierie.
Si trivella sul territorio di Bussoleno, tra i prati e il bosco fluviale, dove sono previsti il nuovo ponte ferroviario e l’interconnessione tra TAV e ferrovia storica. E la faggeta della Maddalena non esiste più, spazzata via dal cantiere e dall’ennesimo svincolo autostradale. Così da questa nostra terra se ne vanno vita e bellezza. Bruciano i ricordi. Anche questa è guerra. Diversi i mezzi e l’intensità, ma identico il fine: i grandi interessi del capitale, la sete di dominio, la follia omicida ed ecocida che nega al pianeta ogni possibilità di futuro.
Questa consapevolezza ci affratella alla Palestina e a tutti i popoli del mondo che resistono perché vita, terra, giustizia, uguaglianza, libertà, non siano parole vane. A San Giuliano, dove sono previsti lo sbocco del tunnel transfrontaliero e la stazione internazionale del TAV, sono stati espropriati case e terreni e l’abbattimento degli edifici è ormai alle porte. La prima vittima sacrificale sarà una casa-simbolo: vecchi muri costruiti per durare, un orto, qualche pianta da frutta e, sulla facciata, il murale di Blu: un grande albero le cui fronde sono mani che strappano reti, impugnano tronchesi, sventolano bandiere, mentre si difende contro il mostro ferrigno in marcia su piedi di ruspe. Un grido di rivolta, la nostra rivolta. La natura che si difende. Un monito contro l’interiorizzazione della sconfitta. L’immagine ci è cara e ci rappresenta: per questo, a ogni costo, la difenderemo.