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Dentro Tubas: cosa rimane di una città palestinese dopo sei giorni di assedio israeliano

TUBAS, PALESTINA OCCUPATA – È finita (per ora) l’aggressione militare israeliana nel governatorato di Tubas. I soldati dell’IDF hanno lasciato la città dopo un totale di sei giorni di assedio e uno di pausa. Tubas, Aqaba, al-Faraa, Tayasir e Tamoun sono tornate a vivere. Il coprifuoco è finito, i bambini possono tornare a scuola, i negozi sono aperti, le strade brulicano di gente. Ma i danni, le ferite e le conseguenze che l’ennesimo raid israeliano hanno lasciato sono difficili da cancellare. «Era venerdì 28 quando ci sono entrati in casa», racconta Mohammad a L’Indipendente. «I soldati hanno messo in una stanza le donne, nell’altra gli uomini. Poi hanno picchiato i miei due figli», racconta. Siamo ad Al-Faraa, il campo profughi a 5 km da Tubas. Uno dei territori sistematicamente attaccati attraverso incursioni, assedi, danneggiamenti alle infrastrutture, di cui quest’ultimo raid è solo un esempio.

Uno dei due figli siede con noi, il braccio rotto al collo. Glielo hanno spaccato i soldati. Tutti e due sono finiti all’ospedale. L’altro figlio ancora non riesce a dormire per il dolore. I militari l’hanno colpito ripetutamente con gli stivali rinforzati sul ginocchio, dove gli avevano sparato un anno fa. Il ragazzo, trentenne, non vuole foto, teme ripercussioni. «Uno dei soldati ha preso anche me, mi ha messo al muro. Ma un altro ha detto “no, lui no”. Perché sono vecchio», sorride Mohammad. Gli chiedo che cosa volevano i soldati, che domande facevano. Scuote la testa: «Questa operazione l’hanno fatta solo per picchiarci, per dirci che dobbiamo stare zitti. Che questa terra è loro. Non chiedevano niente. Qui, ci trattano come animali».

La sua casa testimonia le numerose incursioni subite. Molte delle finestre sono rotte, i vetri sostituiti da pezzi di cartone. Il muro del salotto presenta vari fori di proiettili. Anche l’armadio della camera da letto è stato rotto dalle fucilate dei soldati. «Qui, puoi morire mentre stai tranquillamente dormendo a casa tua!» dice, indicando la finestra accanto al comodino dove sono entrati i proiettili.

L’intero campo profughi mostra le ferite lasciate dai raid militari; la strada principale del campo, è stata scavata dai D9, i bulldozer israeliani con la quale letteralmente arano le strade e rompono l’asfalto. Una parte delle infrastrutture idriche ed elettriche sono state rovinate in questi due anni di ripetuti assedi. «Questa casa l’hanno bruciata», prosegue Mohammed, avvicinandoci a un edificio tutto nero e chiuso con una rete. «Quest’altra l’hanno danneggiata con i bulldozer. Anche quella, e quella» dice, mostrando le evidenti riparazioni effettuate. Camminiamo osservando i buchi dei proiettili sulle case, le finestre rotte, i muretti abbattuti. Arriviamo davanti alla sede dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi. Una grossa struttura con molte vetrate. «Questo posto viene sistematicamente preso di mira», spiega. «Spesso sparano contro le finestre per rompere i vetri. Per mandare via l’UNRWA». Anche le scuole lì accanto sono state danneggiate. I muretti esterni mostrano segni di riparazioni recenti e alcuni tratti sono tuttora a pezzi. Accanto, su un palo della luce, il manifesto di un ragazzino ucciso. Fanno così, qui, per ricordare i martiri. «L’hanno ucciso due settimane fa», dice. «Si chiamava Jad Jihad Jadallah [1]. Aveva 15 anni. È stato ucciso il 16 novembre 2025, mentre giocava a pallone, proprio qui. Hanno impedito all’ambulanza di soccorrerlo, poi hanno sequestrato il corpo». Jad è la 29esima vittima nel campo profughi di al-Faraa uccisa dai soldati d’Israele. 12 di essi, erano ragazzini come lui.

«Ci attaccano perché vogliono mandarci via da tutta quest’area. Siamo all’ingresso della Valle del Giordano, quello che era “il granaio di tutta la Palestina”, dove in passato si produceva la maggior parte della frutta e della verdura. Questa zona è piena di fonti idriche». E aggiunge: «Vogliono prendersi tutta l’area. Anche perché se controllano Tubas, controllano Jenin e Nablus».

Conclude: «c’è una grande sofferenza qui. Ma resistiamo. Dobbiamo essere pazienti. Non lasceremo la nostra madre terra. Saremo come gli alberi: anche se ci uccidono, resteremo qui, non ce ne andremo».

Il sindaco di Tamoun, Samir Bisharat. Foto di Moira Amargi

Il sindaco di Tamoun ci accoglie con la solita gentilezza palestinese. Samir Bisharat, una quarantina d’anni, è una delle oltre 200 persone che sono state detenute durante l’ultima operazione Cinque Pietre. Tamoun è una cittadina di circa 14mila persone presa particolarmente di mira dall’esercito israeliano in questi ultimi due anni e l’ultimo raid lo dimostra: solo nel paesino 25 case sono state occupate e rese caserme per interrogatori; 170 le abitazioni perquisite, 100 persone detenute e interrogate. Cinque gli uomini arrestati.

«Tamun ha circa 40 martiri, molti dei quali bambini. Tutti uccisi dopo il 7 di ottobre,» dichiara Bisharat a L’Indipendente. «Stiamo anche soffrendo per gli ingenti danni economici causati dalle continue incursioni. Questa è una terra di agricoltori. L’obiettivo israeliano è prenderci le terre, distruggere la nostra sussistenza per mandarci via», conferma. «Solo le perdite economiche legate al commercio ammontano a circa 5 milioni di shekel [1,3 milioni di euro, ndr]. Più almeno 3 milioni per i danni alle infrastrutture soprattutto idriche, e 1 milione per quelle private. Ma stiamo ancora contando le perdite economiche». Bisharat denuncia anche che molti cittadini hanno riportato furti di soldi e gioielli durante le perquisizioni e le occupazioni delle proprie abitazioni.

Secondo il sindaco, la retorica con la quale Tel Aviv giustifica gli attacchi è una semplice scusa. «Non abbiamo armi qui», dice. «Vogliono prendersi la terra per costruire una strada di decine di km che dividerà le zone abitate dalle terre coltivate. Il loro principale obiettivo è questo. Stanno anche distribuendo ordini di lasciare dei terreni agricoli con questo scopo». Anche lui conferma che l’area è un territorio strategico, per la sua vicinanza al confine con la Giordania e per la ricchezza delle fonti idriche.

«L’ultima incursione è stata particolarmente violenta. Non si era mai vista una quantità così grande di soldati invadere Tamoun. Sono venuti con gli elicotteri Apache, con armi pesanti», riferisce. «Hanno chiuso le strade con quintali di terra, nessuno poteva entrare o uscire. Quando fanno i raid, la vita, si ferma. Non lasciano nemmeno i giornalisti e le ambulanze avvicinarsi». Gli chiedo della sua detenzione. «Mi hanno detenuto mentre stavo andando in giro per Tamoun a portare medicine a chi aveva bisogno. Mi hanno ammanettato e bendato. Gli ho detto che ero il sindaco, ma non gli è importato». Mi offre una sigaretta, prima di farmi accompagnare a vedere la distruzione lasciata dai bulldozer di Tel Aviv la settimana scorsa. Cinque chilometri della strada che connette Tamoun e Atuf sono stati distrutti. Macchinari del comune stanno ancora lavorando per togliere i pezzi di asfalto lacerati e ai margini delle strade ci sono tuttora detriti. Le macchine avanzano lentamente sulla strada disconnessa.

«Qui vorremmo solo quello che sono i diritti basici di ogni persona: il diritto di vivere, di stare in pace e in sicurezza. Diritti che ci vengono negati dall’occupazione,» conclude il sindaco.

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Moira Amargi

Moira Amargi esiste ed è una persona specifica, ma il nome è uno pseudonimo, usato quando pubblica report sulla Palestina o dall'interno di cortei e momenti di conflitto sociale a rischio repressione. È corrispondente per L'Indipendente dal Medio Oriente e dai Territori Palestinesi occupati.