Una ragnatela fitta di enti governativi, ONG, fact-checker, aziende private e media, tutti collegati in un sistema industriale della censura digitale, rende la Germania un modello europeo di controllo dell’informazione online. È quanto emerge dallo studio più recente dell’organizzazione no-profit Liber-net, presentato a Berlino nei giorni scorsi dal CEO Andrew Lowenthal, ricercatore australiano e attivista per la libertà di espressione. Secondo la ricerca, più di 330 soggetti fra ministeri, agenzie federali, fondazioni e società di telecomunicazioni partecipano a un ecosistema in cui la linea tra lotta alla disinformazione e la limitazione della libertà di espressione è sempre più sottile.
Secondo lo studio di Liber-net [1], Berlino non è una “anomalia” democratica: rappresenta il centro nevralgico di una censura digitale su scala europea che, in nome dei valori occidentali, rischia di diventare un paradigma di controllo capillare sui contenuti. Liber-net ha applicato la metodologia precedentemente utilizzata nella collaborazione con il giornalista Matt Taibbi sui Twitter Files per mappare il Complesso Industriale della Censura focalizzato sugli Stati Uniti, per documentare [2] questo “network di censura” tedesca. In oltre sei mesi di ricerca, è stata ricostruita la rete di questo sistema, che include centinaia di enti ministeri, agenzie governative come la Bundesnetzagentur e la Zentrale für politische Bildung, ONG, media pubblici e privati, think tank, fact-checker e grandi operatori di telecomunicazioni come O2, Vodafone e Telekom. L’azione è frammentata e non tutte le organizzazioni operano direttamente come censori: alcune si occupano di “fact-checking”, altre di moderazione, altre ancora collaborano con piattaforme digitali, ma insieme diventano gli ingranaggi di un meccanismo pervasivo. La repressione sarebbe giustificata dalla necessità di contrastare la disinformazione russa, l’estremismo, l’hate speech e il populismo.
Ciò che emerge dal lavoro configura la Germania come il «centro europeo della censura digitale», con un’influenza significativa sulle politiche di regolamentazione del discorso pubblico anche a livello UE. Il documento descrive un progressivo slittamento della Germania da modello liberale a sistema di sorveglianza digitale estesa. Le leggi come il NetzDG la legge tedesca sul “rafforzamento dell’applicazione del diritto nelle reti sociali”, entrata in vigore nel 2017) e la sua evoluzione attraverso il Digital Services Act europeo trasferiscono alle piattaforme private il potere di decidere cosa sia legale o meno, con forte pressione statale e rischio di censura preventiva. Un aspetto cruciale emerso dalla ricerca riguarda i finanziamenti: dal 2020 al 2024, i fondi statali destinati ad attività dichiarate di “lotta all’odio online” e “contrasto alla disinformazione” sarebbero passati da circa 5 milioni di euro a oltre 27 milioni. Molte ONG coinvolte – come la Fondazione Amadeu Antonio – ricevono consistenti finanziamenti non solo dallo Stato, ma anche da grandi piattaforme digitali, e agiscono come moderatori e “trusted flaggers”, ovvero segnalatori certificati di contenuti “illegali” o indesiderabili online. Dietro il paravento della battaglia contro odio e disinformazione, questa struttura servirebbe di fatto a marginalizzare opinioni critiche o sgradite all’establishment, minando la pluralità del dibattito pubblico e comprimendo il diritto alla libera espressione. Il rapporto indica un clima di autocensura sempre più diffusa: l’84% dei cittadini tedeschi riferisce di essersi trattenuto dal parlare per timore di conseguenze. Vengono citati esempi di perquisizioni domestiche, sequestri di dispositivi e azioni di polizia contro chi pubblica contenuti offensivi online, che erano già stati testimoniati all’inizio del 2025, da un’inchiesta del programma statunitense 60 Minutes [3].
La controversia non riguarda solo l’introduzione di leggi severe, ma la nascita in Germania di un apparato sistemico di controllo del discorso online: un intreccio stabile di ministeri, servizi di sicurezza, ONG, fondazioni e piattaforme private che opera come infrastruttura permanente di selezione del dicibile, trasformando eccezioni giuridiche in prassi ordinaria. Il modello si fonda su segnalazioni, monitoraggi e rimozioni preventive, spesso sottratti al controllo giudiziario e affidati a soggetti formalmente “indipendenti”, ma di fatto finanziati dallo Stato. Berlino diventa così laboratorio per l’Europa, esportando un paradigma in cui la sicurezza informativa prevale sulla libertà, in cui una censura burocratica sempre più diffusa erode il pluralismo e rende la libertà di espressione una concessione condizionata.