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La corsa a vuoto delle fonti fossili: giacimenti in declino, costi in aumento

Nonostante sia ancora diffusa una retorica che dipinge come insostituibile la produzione di energia basata sulle fonti fossili, la realtà mostra sempre più un quadro differente. Le fonti fossili, infatti, sono sempre più antieconomiche nonostante i sussidi diretti e indiretti che le multinazionali petrolifere continuano a ricevere dagli Stati. A ribadirlo sono due analisi pubblicate quasi in contemporanea – il Production Gap Report 2025 [1] e il nuovo rapporto [2] dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea) – che mettono in luce un paradosso che rischia di condizionare mercati, sicurezza energetica e questione ecologica: la produttività dei giacimenti esistenti cala costantemente e i nuovi progetti di estrazione fossile sono spesso in zone talmente complesse dal punto di vista morfologico da rivelarsi del tutto non redditizi se non grazie a incentivi statali.

Secondo il Production Gap Report 2025, venti tra i principali produttori mondiali di combustibili fossili, tra cui Stati Uniti, Russia, Cina, Arabia Saudita e Brasile, stanno pianificando un aumento della produzione rispetto ai livelli del 2023. Se questi programmi verranno attuati, la produzione complessiva nel 2030 sarà più del doppio [3] rispetto a quella compatibile con l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C. Solo Regno Unito, Australia e Norvegia prevedono riduzioni nella produzione di petrolio e gas entro il 2030, mentre undici dei venti paesi analizzati hanno addirittura aumentato i loro piani rispetto al 2023. Queste intenzioni si scontrano frontalmente con quanto rilevato dall’Iea nella sua ultima analisi, basata su oltre 15.000 giacimenti petroliferi e di gas in tutto il mondo. L’agenzia documenta che la produzione globale da giacimenti esistenti sta calando molto più rapidamente del previsto. Nel dettaglio, i giacimenti offshore europei perdono in media oltre il 15% della produzione ogni anno, mentre quelli da scisto calano addirittura del 35% il primo anno e di un ulteriore 15% nel secondo. Il direttore esecutivo dell’Iea, Fatih Birol, sottolinea che «quasi il 90% degli investimenti annuali a monte nel settore petrolifero e del gas è destinato a compensare le perdite di approvvigionamento nei giacimenti esistenti». In termini economici, si tratta di circa 570 miliardi di dollari all’anno spesi unicamente per mantenere i livelli attuali di produzione.

E qui si trova il vero nodo. L’Iea calcola che, anche mantenendo elevati i livelli di investimento nei campi esistenti, da qui al 2050 sarebbero necessari oltre 45 milioni di barili al giorno di nuova produzione petrolifera e quasi 2.000 miliardi di metri cubi di gas da campi convenzionali non ancora sviluppati. In pratica, per tenere la produzione stabile occorrerebbe aggiungere l’equivalente della produzione combinata dei tre maggiori produttori mondiali di petrolio e gas. Questo quadro sembrerebbe dare ragione a chi sostiene l’espansione: senza nuovi investimenti, la produzione fossile crollerebbe. Ma lo stesso rapporto dell’Iea sottolinea che questo scenario dipende in modo cruciale dall’andamento della domanda. Se quella globale calasse come previsto nello scenario compatibile con l’obiettivo di contenere il riscaldamento del pianeta entro gli +1,5 °C, allora i giacimenti già in attività sarebbero sufficienti e non ci sarebbe bisogno di aprirne di nuovi. Lo scenario “zero emissioni nette” elaborato dall’agenzia dimostra infatti che un’accelerazione della transizione energetica comporterebbe un calo della domanda tale da rendere superflua la costruzione di nuove infrastrutture fossili. Da un lato, quindi, i governi temono quindi di restare senza forniture affidabili e si aggrappano all’idea di nuove estrazioni sotto la spinta delle pressioni industriali; dall’altro, la realtà dei giacimenti e le dinamiche di mercato indicano che le risorse fossili richiedono investimenti sempre più onerosi e offrono rendimenti decrescenti.

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La transizione energetica, nel frattempo, accelera. In una dinamica che è guidata dal mercato anche in assenza di precisi impegni pubblici. Se si guarda dove stanno andando i soldi, il mercato sta già votando con il portafoglio: l’IEA stima che nel 2024 gli investimenti globali in tecnologie e infrastrutture di “clean energy” – rinnovabili, reti, accumuli, efficienza – raggiungeranno [5] circa 2.000 miliardi di dollari su oltre 3.000 miliardi di investimenti energetici complessivi, cioè circa il doppio di quanto va ancora a petrolio, gas e carbone. Già nel 2023 la curva era girata: per ogni dollaro speso in combustibili fossili, nel mondo si spendevano circa 1,7 dollari in tecnologie pulite. Nel settore elettrico, gli investimenti in tecnologie pulite hanno addirittura superato di 10 a 1 quelli nei combustibili fossili. Il quadro, quindi, è chiaro: i governi dichiarano piani di espansione che rischiano di compromettere gli obiettivi climatici, mentre l’industria fossile deve affrontare il declino strutturale delle riserve e costi insostenibili per mantenere lo status quo. La vera direzione di marcia sembra però già segnata. Gli investitori, spinti da logiche economiche più che da pressioni esterne, stanno progressivamente abbandonando i combustibili fossili a favore delle energie rinnovabili.

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Simone Valeri

Laureato in Scienze Ambientali e in Ecobiologia, attualmente frequenta il Dottorato in Biologia ambientale ed evoluzionistica della Sapienza. Oltre alle attività di ricerca, si dedica al giornalismo ambientale e alla divulgazione scientifica.