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Dal 7 ottobre, almeno 98 palestinesi sono morti nelle carceri israeliane

Novantotto prigionieri politici palestinesi sono morti negli ultimi due anni: è il dato più alto degli ultimi decenni e segna un punto di svolta nella gestione delle detenzioni israeliane. Novantaquattro decessi sono stati registrati tra il 7 ottobre 2023 e l’agosto 2025, altri quattro tra ottobre e novembre di quest’anno, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto, dato che non si hanno più informazioni su centinaia di detenuti. È il quadro che emerge dal rapporto di Medici per i diritti umani (PHRI), Deaths of Palestinians in Israeli custody: enforced disappearances, systematic killings and cover-ups. Il dossier documenta l’esistenza di una politica ufficiale che combina sparizioni forzate, violazioni dei diritti umani, condizioni carcerarie abusive e uccisioni.

Le detenzioni massicce hanno trasformato carceri e strutture militari in veri e propri centri di tortura: detenuti privati di contatti con le famiglie, ammanettati per ore a terra, pestaggi, fratture non curate, infezioni lasciate evolvere senza antibiotici, malnutrizione e isolamento prolungato. La maggior parte dei palestinesi provenienti da Gaza morti in detenzione non era considerata combattente neppure dalle autorità israeliane: erano civili. Diverse inchieste [1] hanno già documentato atti di violenza arbitraria. Il rapporto 2024 di Physicians for Human Rights Israel e il reportage del Public Committee Against Torture in Israel segnalato dal New Yorker [2] denunciavano la trasformazione delle carceri israeliane in luoghi di abuso sistematico. Un rapporto [3]  dell’ONG israeliana B’Tselem, basato su 55 testimonianze dirette, ha confermato le violenze: prigionieri senza processo, aggressioni sessuali, torture fisiche e psicologiche.

Ora, PHRI approfondisce questa realtà articolandola in tre fronti. Il primo riguarda le scomparse forzate: molti detenuti non vengono registrati, ma confinati in basi militari segrete, le famiglie restano senza notizie e anche l’accesso del Comitato internazionale della Croce Rossa viene spesso bloccato. I parenti dei detenuti hanno appreso in ritardo la notizia del loro decesso o non l’hanno appresa affatto. Per l’organizzazione, questa pratica rientra pienamente nella definizione internazionale di “scomparsa forzata”, volta a rimuovere le prove dei crimini. Il secondo fronte è quello delle morti in custodia, che coinvolge sia le carceri civili sia le strutture militari: «L’uccisione dei palestinesi in custodia – leggiamo nel dossier – è diventata una pratica normalizzata, derivata direttamente da una politica ufficiale dello Stato». Sulle strutture civili emergono i dati su sovraffollamento, violenze e cure negate; in quelle militari, prevalgono opacità e assenza di controlli esterni, «inclusa l’ampia violenza fisica quotidiana» da parte delle guardie carcerarie. Le autopsie disponibili mostrano una combinazione ricorrente di traumi fisici dovuti «alla violenza fisica inflitta dai soldati israeliani» e alla negligenza medica.

Sde Teiman [4]– la base militare nel deserto del Negev trasformata in campo di prigionia e ribattezzata l’“Abu Ghraib israeliana” dagli attivisti dei diritti umani – emerge come quello con il più alto numero di decessi: 29. La struttura è circondata dal silenzio dell’esercito israeliano, che la gestisce come una zona militare interdetta. Già precedenti inchieste descrivevano Sde Teiman come un luogo dove i detenuti vengono bendati, incatenati e picchiati regolarmente, persino trattenuti in gabbie. Anche dopo che Sde Teiman è entrato nel dibattito pubblico e nei media, gli abusi sono continuati. Di questo luogo si è, infatti, parlato molto nelle ultime settimane per la vicenda dei cinque soldati incriminati per torture e lesioni aggravate, dopo la diffusione di un video – autorizzata dalla procuratrice militare Yifat Tomer Yerushalmi [5] poi arrestata a inizio novembre – trasmesso da Channel 12 nell’agosto 2024 e girato il mese precedente, che documenta abusi sessuali su un detenuto palestinese.

Il terzo fronte analizzato nel rapporto, infine, riguarda la copertura, tra autopsie impedite e indagini interne inconsistenti. PHRI conclude che non si tratta di casi isolati, ma di un apparato sedimentato negli anni e radicalizzato dopo il 7 ottobre, costruito per rendere invisibili i detenuti e inverificabili le responsabilità. Per questo, PHRI chiede un’inchiesta internazionale, il rilascio immediato dei corpi e indagini efficaci per accertare le responsabilità. Il nodo resta politico: finché il sistema carcerario sarà trattato come un’appendice della guerra, ogni vita rinchiusa potrà svanire nel silenzio.

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Enrica Perucchietti

Laureata con lode in Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista, scrittrice ed editor. Collabora con diverse testate e canali di informazione indipendente. È autrice di numerosi saggi di successo. Per L’Indipendente cura la rubrica Anti fakenews.