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No al caporalato made in Italy: azione collettiva contro lo scudo penale nella moda

Dopo gli scandali e le inchieste che hanno coinvolto noti marchi italiani della moda di lusso, accusati di sfruttamento e caporalato, sono arrivate [1] le proposte per cercare di arginare e regolamentare i problemi a monte e le prime azioni collettive ad opera di varie associazioni. Dopo che, a maggio, è stato siglato [2] il Protocollo d’intesa per la legalità dei contratti di appalto nelle filiere produttive della moda, è ora arrivato un nuovo strumento: la certificazione unica di conformità. Si tratta di uno strumento volontario che punta ad attestare legalità, trasparenza e correttezza lungo tutta la filiera produttiva, che punta a tutelare tanto l’immagine del Made in Italy quanto il rispetto delle normative sociali e fiscali. Tuttavia, la misura non convince organizzazioni e associazioni, che ritengono che il provvedimento costituisca a tutti gli effetti uno scudo penale per le società.

In sintesi, il Protocollo propone una banca dati regionale per censire fornitori e manodopera impiegata; una piattaforma messa a punto dal Politecnico di Milano e gestita dalla Regione stessa per raccogliere dati ed informazioni della filiera produttiva. Quante e quali informazioni devono essere inserite dipende dalle dimensioni dell’impresa ed in ogni caso si tratta di una piattaforma ad iscrizione volontaria. Alle aziende fornitrici accreditate verrà rilasciato un Attestato di trasparenza del settore moda; i brand che decidono di aderire al protocollo si impegnano a richiedere per via contrattuale al fornitore un impegno a rispettare le norme giuslavoristiche. Questa proposta, per quanto sia un inizio costruttivo, lascia spazio a diverse perplessità, prima tra tutti il suo limitato aspetto regionale (quando sappiamo benissimo che ci sono aziende produttrici sparse in svariati distretti e in numerose regioni, da Nord a Sud della penisola). Altro grande punto interrogativo sorge sulla possibilità di essere esentate dalla piattaforma le aziende produttrici di diretta proprietà dei brand (come se quelle avessero di default la coscienza pulita, o più semplicemente rientrano tra “gli intoccabili”). Infine, ogni misura volontaria lascia il tempo che trova.

Con il recente disegno di legge sulle piccole e medie imprese, poi, è arrivata la certificazione unica di conformità per le aziende del settore moda: un sistema di attestazione che garantisce la legalità, la trasparenza e la correttezza lungo l’intera filiera produttiva. Questa certificazione, definita anche come “bollino di garanzia”, ha l’obiettivo di tutelare sia l’immagine del Made in Italy che di promuovere pratiche di lavoro corrette e rispettose delle normative sociali e fiscali. A poter richiedere “il bollino” sono tutte quelle società lige i cui titolari o amministratori non abbiano avuto condanne penali negli ultimi tre anni o sanzioni riguardanti inadempimenti di normative sul lavoro, che si impegnano a sottoscrivere contratti regolari con le aziende fornitrici (che a loro volta lo dovrebbero fare con i subfornitori). In pratica il bollino viene rilasciato a chiunque faccia dei contratti “a norma”. Niente di nuovo, dunque, oltre al fatto che questo tipo di documenti potrebbero essere falsificati (come spesso è stato fatto fino ad ora). La proposta di legge, infatti, non prevede né controlli né verifiche, né alcun tipo di miglioria concreta e dimostrabile, creando un precedente pericoloso.

«La certificazione unica di conformità permetterà alle aziende di operare come sempre, continuando a violare le norme con l’avallo delle istituzioni, creando a tutti gli effetti uno scudo penale contro le società capofila (o qualunque anello della catena che si procuri la certificazione)». Questa la paura delle 23 organizzazioni che si stanno movimentando per bloccare il disegno di legge – tra le quali ci sono capofila Campagna Abiti Puliti, l’ASGI, OXFAM e Libera. Lo sfruttamento all’interno della filiera – purtroppo – è ormai strutturale, un modello di business ben inserito nel contesto fashion a vari livelli. L’ennesima certificazione volontaria non servirà certo ad eliminare violazioni ed illegalità. Anzi. Permetterà di perpetuare nel tempo quello che già succede: sfruttamento e agevolazione colposa del caporalato nella subfornitura da parte delle aziende capofila. Le organizzazioni contestano apertamente questa norma, auspicando un settore realmente sostenibile. 

La moda ha bisogno di politiche industriali e del lavoro serie ed efficaci, per trasformare il comparto in maniera sana, innovativa, con un occhio alla transizione ecologica e l’altro ai diritti dei lavoratori. Non di altre misure opache per permettere a chi ha costruito imperi su pratiche scorrette di continuare ad aggiungere mattoni a discapito di altri esseri umani. L’appello è aperto [3].

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Marina Savarese

Stilista, docente di moda e comunicazione, scrittrice e co-fondatrice del portale Sfashion-net, dedicato alla moda slow. Per L’Indipendente si occupa di consumo e moda critica.