Le principali testate di otto Paesi occidentali hanno sistematicamente privilegiato la narrazione israeliana e marginalizzato le prospettive palestinesi nella copertura del genocidio di Gaza, omettendo le loro rivendicazioni storiche e il contesto dell’occupazione. È quanto rivela il rapporto di Media Bias Meter, Framing Gaza: A Comparative Analysis of Media Bias in Eight Western Outlets, che ha analizzato 54.449 articoli pubblicati in cento settimane, dal 7 ottobre 2023 ad agosto 2025, dallo statunitense The New York Times, dalla britannica BBC, dal canadese The Globe and Mail, dal francese Le Monde, dal tedesco Der Spiegel, dal belga La Libre Belgique, dall’italiano Corriere della Sera e dall’olandese De Telegraaf. Dalla ricerca emerge uno schema coerente: una distorsione strutturale del racconto a favore del frame israeliano. Il risultato è un’informazione che, pur proclamandosi equilibrata, finisce per legittimare la violenza di Stato come «autodifesa», normalizzare l’occupazione e relegare le vittime palestinesi a un ruolo secondario, deumanizzandole e filtrandole attraverso «la lente del terrorismo».
Il pregiudizio che unisce i media occidentali
Lo studio [1] mostra come, al di là delle linee ideologiche, l’architettura comunicativa risponda allo stesso schema: Israele al centro del discorso, la Palestina confinata a nota a margine o a cornice funzionale. La genesi di questo processo, sostiene G.G. Darwiche – coautrice del rapporto e portavoce del collettivo [2] che riunisce professionisti della tecnologia che analizzano i bias dei media occidentali sulla Palestina per promuovere una narrazione più equa, sostenuto dalla coalizione TechforPalestine – risale almeno ai primi anni Duemila, in cui già diversi articoli descrivevano i palestinesi come «una minaccia per l’esistenza di Israele». «Non si tratta nemmeno di destra contro sinistra», continua Darwiche, smontando il mantra che vorrebbe il pluralismo politico come antidoto alla distorsione informativa. Dall’analisi delle testate emergono dei pattern chiari e definiti che trasformano «accuse vaghe di faziosità in prove inconfutabili». La sorpresa non è che mezzi di informazione esplicitamente conservatori alimentino tale narrazione, ma che i media centristi e progressisti – come il New York Times, Der Spiegel, Globe and Mail e BBC – risultino persino più sbilanciati di tabloid di destra come De Telegraaf. Secondo il rapporto, per preservare un’immagine moralmente accettabile di Israele presso un pubblico più critico, queste testate avrebbero «corretto eccessivamente», finendo per riprendere senza verifica le comunicazioni ufficiali israeliane e per mettere in ombra dati, testimonianze e violazioni documentate ai danni del popolo palestinese. «I media centristi o progressisti adottano forme di distorsione molto più sottili, ma costanti e pervasive, basate soprattutto sull’omissione del contesto, che finisce per cancellare la realtà dei fatti», spiega ancora Darwiche, che ci racconta come il gruppo di lavoro sia rimasto “sorpreso” dai risultati, essendo partito dall’ipotesi opposta, ossia che «i giornali di destra, populisti o conservatori, sarebbero risultati i più faziosi».
Come si costruisce il frame

Il conflitto in Medio Oriente viene spesso raccontato come una contrapposizione in cui l’esistenza di un popolo esclude quella dell’altro e in cui a essere sacrificati sono sempre i palestinesi. Questa logica si riflette nella narrazione mediatica, che li relega al ruolo di “antagonisti” e li frammenta in “abitanti di Gaza” o “della Cisgiordania”, evitando di riconoscerli come un unico popolo. E già l’analisi dei titoli è rivelatrice: il New York Times cita “Israele” 186 volte per ogni menzione di “Palestina”. E quando il termine “Palestina” compare (è il caso della BBC, con 80 titoli su 91), è quasi sempre per parlare di proteste, di reazioni internazionali o di scontri terminologici. In questo modo, la Palestina come soggetto politico svanisce, sostituita da un’astrazione. Il contesto dell’occupazione – cuore del conflitto – viene cancellato: su Der Spiegel, soltanto due articoli su oltre tremila riferimenti riconoscono i Territori Palestinesi come “occupati”. Il risultato è che si «oscura sia l’illegalità degli insediamenti sia le loro conseguenze materiali per i palestinesi». Agli artifici semantici si affianca la gerarchia dei temi: perfino durante la carestia, il lessico del “terrorismo” ha doppiato quello della “crisi umanitaria”, mentre il diritto all’“autodifesa” viene implicitamente riconosciuto a Israele, ma non ai palestinesi che vengono associati alla categoria di “terroristi”. In questo modo, «il lettore interiorizza il frame dei palestinesi come minaccia più che come vittime, e dell’azione militare israeliana come “risposta” anziché aggressione». BBC e Le Monde, in due terzi degli articoli, hanno riprodotto tale linguaggio, contribuendo a perpetuare stereotipi coloniali, dipingendo arabi e musulmani come intrinsecamente violenti, barbari e irrazionali.
Spersonalizzazione e disumanizzazione
Le accuse israeliane secondo cui i giornalisti palestinesi sarebbero militanti o simpatizzanti di Hamas vengono spesso accolte dai media quasi senza contestazione. A volte, basta aver intervistato un funzionario del governo di Hamas per essere etichettati come “operativi” o collusi con l’organizzazione. La disumanizzazione emerge anche nel modo in cui i minori palestinesi vengono descritti. Bambini detenuti in regime amministrativo e spesso senza accuse, raramente vengono chiamati per quello che sono: “bambini”. Al loro posto compaiono etichette come “adolescenti” o “giovani adulti”. Questo “rebranding” li priva della loro infanzia e ne attenua l’innocenza e la vulnerabilità, rendendo la loro detenzione più accettabile. Così, il ricorso a frasi-template, ripetute ossessivamente centinaia di volte, fissa il frame “Israele risponde al 7 ottobre”. Emblematica la diffusione, mai verificata né tantomeno rettificata, di fake news usate per presentare la risposta israeliana come “inevitabile”. È il caso di Der Spiegel e del Corriere della Sera, che hanno rilanciato la falsa storia dei “bambini decapitati”, senza poi smentirla né correggerla, mostrando come narrazioni emotive e sensazionalistiche possano oscurare i fatti e alimentare processi di disumanizzazione.
Ciò che non si dice: diritto al ritorno, Nakba e lessico militarizzato

Un altro aspetto rivelatore è ciò che l’informazione sceglie sistematicamente di non dire. Il rapporto mostra come concetti fondamentali per comprendere la storia palestinese – dal “diritto al ritorno” alla Nakba – siano quasi assenti dal lessico mediatico: in oltre 50.000 articoli, il diritto al ritorno viene citato solo 38 volte, mentre i riferimenti alla Nakba compaiono raramente e spesso in forma edulcorata, come una “fuga” o un “esodo”. Allo stesso tempo, espressioni desunte dal linguaggio militare, come “attacchi di precisione” o “scudi umani”, ricorrono decine di volte in tutte le testate, contribuendo a costruire un’immagine di razionalità, controllo e necessità. Ancora più sbilanciata è la copertura del “diritto all’esistenza”, invocato per Israele in modo schiacciante rispetto alla Palestina, quasi che il riconoscimento di un popolo debba essere meritato e non intrinseco. Sommati, questi elementi concorrono a rimuovere la dimensione coloniale del conflitto e trasformano una popolazione assediata in un soggetto privo di diritti.
Cosa resta nella memoria collettiva
Le conseguenze non sono solo simboliche: i frame mediatici orientano la percezione pubblica, le scelte dei governi e, più in generale, ciò che passerà alla storia. «Raccogliere ora le prove di un inquadramento fazioso garantisce che il resoconto non possa essere cancellato», si legge nel report. Un’informazione che minimizza le violazioni, che evita parole come “blocco”, “apartheid”, “insediamenti illegali”, produce un immaginario depoliticizzato, dove la sofferenza palestinese appare inevitabile, quasi naturale. È in questo vuoto che si legittimano politiche estere compiacenti, ritardi nelle condanne e ambiguità diplomatiche. Il metodo impiegato dal rapporto non pretende di misurare l’intero spettro delle responsabilità giornalistiche, ma offre un dato oggettivo: l’omissione è una forma di parzialità quanto la menzogna. E quando coinvolge otto tra le più influenti testate occidentali, non è più un’anomalia: è un paradigma che impone di ripensare il ruolo dell’informazione, il suo rapporto con il potere e la sua capacità – o volontà – di raccontare ciò che avviene davvero, anche quando la verità disturba.