L’Ecuador si è risvegliato con un verdetto che ribalta i piani del governo: la proposta di permettere la presenza di basi militari straniere, in particolare statunitensi, promossa dal presidente Daniel Noboa, è stata respinta con un netto “no” da 6 elettori su 10. Il risultato del referendum che si è tenuto domenica è un duro colpo per Noboa, che aveva condotto una campagna per modificare la Costituzione e revocare un divieto di ospitare sul territorio nazionale basi militari di Paesi stranieri, approvato dal parlamento nel 2008. La consultazione, che l’esecutivo aveva legato alla propria agenda di sicurezza e allineamento con Washington, si è trasformata in un giudizio politico incarnato dal presidente neoliberista. Il risultato ha messo a nudo la fragilità del governo di Quito, confermando un malessere sociale che da mesi attraversa il Paese.
Una volta reso noto l’esito del referendum, Noboa ha dichiarato su X [1] che il suo governo «rispetterà la volontà del popolo» e continuerà a lottare per il Paese che «tutti meritano». Il referendum, che comprendeva tre quesiti, ha visto gli elettori rifiutare anche la fine dei finanziamenti pubblici ai partiti politici, la riduzione delle dimensioni del Congresso e l’istituzione di un’assemblea costituente per riscrivere la Costituzione. Il cuore politico della consultazione era, però, quello relativo al possibile ritorno di basi militari statunitensi sul territorio nazionale, ipotesi caldeggiata dal governo come parte di una più ampia strategia di contrasto al narcotraffico e al crimine organizzato. Alleato del presidente Donald Trump, negli scorsi mesi il governo ecuadoriano aveva espresso l’interesse per l’apertura di una base statunitense e a marzo Noboa e Trump si erano incontrati per discuterne. Quito aveva puntato fortemente su questo voto, presentandolo come un passaggio fondamentale per rafforzare la sicurezza interna e proiettare l’Ecuador in una dimensione internazionale più stabile. La sconfitta, dunque, non è soltanto un risultato avverso: è un fallimento simbolico per un presidente che aveva cercato di legare la propria legittimazione alla capacità di imprimere una svolta liberista e filo-USA nel Paese.
Il contesto in cui si è arrivati alle urne era tutt’altro che sereno. Il consenso raccolto da Noboa alle elezioni di aprile scorso non si è tradotto in un sostegno solido e diffuso. Liberale e rappresentante della destra imprenditoriale, figlio del magnate ecuadoriano Alvaro Noboa, la sua impostazione economica orientata alle privatizzazioni e alla riduzione del ruolo dello Stato, unita alla crescente dipendenza da Washington in materia di sicurezza, ha alimentato sospetti e ostilità in ampie fasce della popolazione. L’Ecuador è un Paese che storicamente diffida della presenza militare straniera e l’idea di affidare a Washington un ruolo diretto nelle strategie interne ha riacceso tensioni sopite. Nei mesi precedenti al voto, manifestazioni [2] diffuse avevano già messo sotto pressione l’esecutivo. Le proteste e gli scioperi contro le misure economiche neoliberiste, il caro vita e la gestione della sicurezza avevano coinvolto studenti, lavoratori, categorie produttive e, soprattutto, le comunità indigene [3].
In questo clima, il referendum è diventato una sorta di plebiscito sull’intero progetto politico del governo di Quito. Non a caso, il voto negativo sulle basi USA è stato accompagnato da un ampio dissenso anche sugli altri quesiti, che molti hanno interpretato come parte di un disegno volto a concentrare maggiormente il potere nelle mani dell’esecutivo. La bocciatura del pacchetto referendario segnala dunque una resistenza più ampia: non si tratta solo di rifiutare la presenza di truppe straniere, ma di contestare un modello politico-economico percepito come lontano dalle esigenze della popolazione. Ora, l’asse con Washington ne esce incrinato e la cooperazione militare con gli Stati Uniti diventa più difficile. La vittoria del “no” lascia il presidente più debole e costretto a rivedere un progetto che la società ha respinto, mentre il Paese rivendica il diritto di decidere autonomamente il proprio futuro senza pressioni né ingerenze esterne.