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COP30: tra le proteste indigene i Paesi del mondo cercano un accordo sul clima

Al trentesimo vertice globale sul clima (COP30) si è conclusa la prima settimana di lavori tra avanzamenti disomogenei, tensioni politiche e qualche spiraglio di progresso. I negoziatori, riuniti a Belém in Brasile, sono ora chiamati a trasformare anni di discussioni in scelte politiche concrete. Più che di scelte per l’ambiente si parla di soldi. Sul tavolo, infatti, alle richieste di compensazioni da parte dei Paesi del sud globale fanno da contraltare le reticenze delle grandi nazioni industrializzate, restie a saldare il conto storico del proprio sviluppo industriale basato sulle fonti fossili per convincere gli Stati emergenti ad accettare di non seguire la medesima traiettoria. Sullo sfondo rimangono le proteste dei popoli indigeni [1] che chiedono di rimettere al centro delle discussioni la protezione dell’ambiente e dei territori. Tutti i negoziati dovranno chiudersi necessariamente con un accordo entro venerdì, in caso contrario le discussioni slitteranno ai colloqui di Bonn del 2026 o, peggio, alla COP31.

La plenaria conclusiva della prima settimana ha restituito un clima sospeso. Molti governi hanno espresso apertamente la loro delusione per la lentezza dei lavori, tanto che il maestro di cerimonia del Vertice, il presidente brasiliano Lula, sta valutando di tornare personalmente a Belém per imprimere nuovo slancio dopo esser stato chiaro fin dal suo discorso inaugurale: la COP30 deve segnare la traiettoria per l’uscita progressiva dalle fonti fossili. Non più le vaghe sfumature linguistiche prive di impegni concreti come phase down (riduzione graduale) o transitioning away (transizione graduale), con cui si erano chiuse all’insegna degli accordi al ribasso i precedenti vertici, ma impegni concreti e databili. Alcune potenze, tra cui Francia, Germania, Danimarca e Regno Unito, sostengono apertamente la proposta. Altri Paesi, come l’Italia, restano scettici quando non apertamente ostili. La divisione emerge chiaramente anche sull’obiettivo di contenimento del riscaldamento globale entro gli +1,5 °C. Le piccole isole e diversi Paesi latinoamericani chiedono che sia richiamato in modo netto, mentre i Paesi arabi e l’India preferiscono riferirsi all’intero Accordo di Parigi, lasciando aperta la soglia dei 2°C. Intanto, anche il presidente del vertice, André Correa do Lago, ha intuito che serve una svolta per evitare che la COP30 si risolva in un nulla di fatto come le precedenti. Motivo per cui ha indetto un Mutirão, una “mobilitazione collettiva”, che prenderà la forma di una riunione a livello ministeriale e dei capi-delegazione in queste ore.

Tra i pochi accordi, di facciata ratificati fino ad ora, c’è quello per la lotta contro la “disinformazione climatica”, così come richiesto da tredici Paesi per la prima volta nella storia dei vertici sul clima. Al riguardo è stata anche firmata una dichiarazione che stabilisce impegni internazionali comuni per promuovere un’informazione corretta e fondata su ciò che indica la comunità scientifica. Contraria, l’Italia, la cui Presidente del Consiglio Meloni ha tra l’altro scelto di non essere presente alla COP30, seguendo la linea dell’alleato Donald Trump che da gennaio ritirerà di nuovo gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi.

Ad ogni modo, come preannunciato, è la finanza climatica il grande nodo ancora irrisolto. Il percorso “Road to Belém” prevede di mobilitare la cifra di 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Una somma apparentemente enorme ma che, in realtà, rappresenta poco più dello 1% del PIL globale, che nel 2024 è stato [2] di circa 110.000 miliardi. Tuttavia, per comprendere l’entità del passo da fare, basta sapere che nel 2022 ci si accordò per 190 miliardi l’anno, una cifra di sette volte inferiore, oltretutto mai erogata totalmente. I cosiddetti fondi di compensazione sono le risorse che i Paesi del Sud globale chiedono ai Paesi ricchi perché hanno contribuito molto meno alla crisi climatica, ma ne subiscono gli impatti peggiori. Non sono aiuti caritatevoli, bensì soldi ritenuti dovuti per finanziare adattamento, transizione energetica e riparare perdite e danni causati in larga parte dalle emissioni storiche del Nord globale. Questo principio è già riconosciuto negli accordi ONU sul clima (dalla Convenzione del 1992 all’Accordo di Parigi), che impegnano i Paesi industrializzati a fornire finanza climatica e hanno portato alla creazione di un fondo ad hoc per «perdite e danni». Ma al di là del principio, c’è appunto da trovare un accordo sulla somma da destinare.

Ed oltretutto non è nemmeno la questione economica più difficile da stabilire. Il nodo più esplosivo è infatti stabilire precisamente quali Stati devono pagare e quali devono ricevere: le regole ONU sul clima sono ancora basate sulla divisione del 1992 tra “Paesi sviluppati” e “in via di sviluppo”. In questa seconda categoria restano anche grandi emettitori come Cina, India o Arabia Saudita, che rivendicano lo status di Paesi in via di sviluppo e quindi il diritto a ricevere fondi, non l’obbligo di contribuire in modo paragonabile a UE o USA. Molti Paesi occidentali insistono invece perché questi grandi emergenti diventino anche donatori netti, dato il loro peso economico e climatico attuale. Lo scontro su come aggiornare – o meno – questa mappa del mondo è uno dei punti che rischia di bloccare il nuovo sistema di finanza climatica.

Si cerca ancora un accordo anche sulla riduzione delle emissioni, le cosiddette Nationally Determined Contributions (NDC). Gli impegni presi nell’Accordo di Parigi sono giudicati insufficienti, ma solo 114 Paesi su 194 hanno presentato nuovi impegni aggiornati. Secondo le stime ONU, con gli impegni attuali il mondo viaggia verso un riscaldamento ben oltre 1,5 °C, più vicino ai 2,5-3 °C. Per restare negli obiettivi di Parigi servirebbero tagli molto più rapidi entro il 2030, e proprio su quanto accelerare – e chi deve farlo per primo – si sta consumando il braccio di ferro tra Nord globale e grandi economie emergenti.

In questo quadro difficile, arriva però qualche notizia positiva. La prima è che il fondo “perdite e danni”, cioè il meccanismo istituito per fornire assistenza finanziaria ai paesi in via di sviluppo che sono colpiti in modo sproporzionato dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici, è diventato operativo: nella prima settimana di negoziati è stato anche pubblicato il primo bando per le richieste di finanziamento. La seconda sarebbe l’istituzione del nuovo Tropical Forest Forever Facility, un fondo d’investimento che punta a difendere le aree forestali e che ha raccolto 5,5 miliardi di dollari da 53 Paesi per proteggere un miliardo di ettari di foreste tropicali. Un risultato significativo, ma non privo di incognite e potenziali punti critici, dato che si è scelto di subordinare la tutela delle foreste a logiche di investimento finanziario.

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Simone Valeri

Laureato in Scienze Ambientali e in Ecobiologia, attualmente frequenta il Dottorato in Biologia ambientale ed evoluzionistica della Sapienza. Oltre alle attività di ricerca, si dedica al giornalismo ambientale e alla divulgazione scientifica.