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Le bugie dell’industria alimentare sull’agricoltura biologica

L’affermazione estremamente diffusa, «L’agricoltura biologica non sfamerà il mondo», rappresenta in realtà un’affermazione priva di fondamento e dati scientifici. Viene diffusa per lo più da produttori, distributori e commercianti aderenti alla Grande Distribuzione Organizzata e al modello di agricoltura e allevamento intensivo industriale. Vi sono tante evidenze che dimostrano esattamente il contrario, ovvero che un’agricoltura rispettosa dell’ambiente, di piccola scala, sia più produttiva e sostenibile di una massiva di larga scala. Questo modello agricolo produce di più, in quanto praticabile anche in piccole realtà territoriali grazie alla rotazione delle coltivazioni e a un intelligente utilizzo dei terreni, e inoltre prevede pratiche che rispettano la stagionalità e la località del cibo che viene prodotto. Un recente studio pubblicato su Nature Sustainability ha analizzato tutta la più recente bibliografia di settore, concludendo che l’agricoltura di piccola scala garantisce più alte produzioni e una maggiore capacità di conservazione della biodiversità.

I progetti agricoli sostenibili

Un esempio di tutto questo sono i progetti agricoli sostenibili nati attorno a Slow Food, l’associazione per la tutela del cibo sano fondata in Piemonte nel 1986 e poi diventata un movimento internazionale. I progetti agricoli avviati da questa associazione si chiamano Presidi Slow Food e sono finalizzati alla tutela e salvaguardia di tutti quei prodotti del settore agroalimentare che rappresentano l’eccellenza della tradizione e della genuinità di un territorio, in Italia e nel mondo. In Italia, questi presidi sono a oggi circa 400, oltre 600 nel mondo. Tra queste vi è, per esempio, La Granda, associazione di allevatori nata a Cuneo nel 1996 con l’intento di allevare bovini in maniera diversa da quella industriale e intensiva. L’ispiratore e fondatore di questa associazione fu Sergio Capaldo, medico veterinario, che aveva osservato come gli allevatori dovessero sottostare a troppi compromessi dettati dal sistema. Gli allevatori di La Granda mettono in atto una forma di allevamento sostenibile: il numero di capi è proporzionato ai terreni dell’azienda, l’allevatore produce da sé il foraggio e gli alimenti necessari, i terreni sono fertilizzati con lo stesso letame dei suoi animali, che è sano perché non contiene medicinali e altre sostanze chimiche. Si tratta insomma di quella forma di allevamento naturale praticato per secoli, prima dell’arrivo dell’allevamento intensivo. In questo modello il letame è fondamentale perché la qualità di tutto quello che si coltiva nel terreno è data dalla fertilizzazione con letame di qualità. Una sana alimentazione degli animali e un modo non stressante di vivere come quello messo in atto dagli allevatori di La Granda, porta a non avere necessità di trattamenti farmacologici. Al contrario, negli allevamenti intensivi la patologia si sviluppa a causa di spazi chiusi e sovraffollamento, ma un ruolo importante nella diffusione delle malattie lo riveste anche il trasporto su camion, il quale copre tragitti molto lunghi (basti pensare, per esempio, alla dicitura «nato in Francia, allevato in Italia»). Tutto questo rende necessari i trattamenti farmacologici con antibiotici, cortisone e farmaci antinfiammatori. Tipico il caso della mastite nelle bovine da latte, riscontrato di recente (nel 2020) anche nel latte commerciale italiano grazie ad analisi chimiche di laboratorio.

L’uso intensivo di fitosanitari e fertilizzanti chimici causa degrado del suolo e perdita di biodiversità

Per chi sceglie di fare agricoltura in modo diverso, sostenibile, conta molto sia come si produce sia cosa si produce. Vediamo il caso delle mele antiche e biologiche coltivate dalla Cooperativa agricola Il Frutto Permesso, sempre in Piemonte, che opera col metodo biologico in maniera credibile e sostenibile dal 1987. Le mele antiche sono quelle varietà di mele che esistevano già al tempo dei romani, dei greci e dei celti e che dopo più di duemila anni sono arrivate fino a noi. La ricerca scientifica ci dice che questi frutti contengono il più alto quantitativo di vitamine, minerali, polifenoli e sostanze antiossidanti, decisamente superiore rispetto alle mele moderne selezionate e ibridate con l’ingegneria agricola, vendute nei supermercati. Inoltre, le mele antiche sono straordinariamente resistenti alle malattie. Solamente in Piemonte ci sono circa 400 varietà diverse di mele antiche, mentre in altre regioni italiane ce ne sono altre – si pensi alla mela annurca campana o alla mela rossa di Corone in Friuli, tra le tante. Produrre una varietà di mela antica non è un vezzo o una nostalgia, ma significa poter contare su una varietà più resistente alle malattie che si sviluppano in quel dato territorio, evitare di usare pesticidi e insetticidi chimici e, in generale, fare un’agricoltura più pulita. Molti documenti e ricerche dimostrano inoltre che frutti e ortaggi da agricoltura BIO sono più ricchi di nutrienti: una ricerca durata 10 anni dell’Università della California ha mostrato che, in media, i pomodori BIO hanno il 79% in più di quercetina e il 97% in più di camferolo, due sostanze antiossidanti del frutto. Anche uno studio italiano condotto da INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per l’Alimentazione e l’Agricoltura) conferma che pesche e pere BIO sono superiori a quelle prodotte con agricoltura chimica per sostanze nutritive, vitamine, antiossidanti. 

Solo l’agricoltura chimica è progresso?

Un falso mito riguardante il metodo biologico, fatta circolare dall’industria della chimica e degli agrofarmaci, è quello di far credere che il BIO rappresenti una sorta di regressione della tecnica, quando in realtà il regime di coltivazione biologica è la più avanzata forma di agricoltura esistente (insieme a quello biodinamico), perché ri-mette a disposizione tutta una serie di saperi e competenze, in primis proprio a chi opera come azienda biologica. Si impara nuovamente a coltivare la terra sfruttando tutte le risorse che essa possiede e tutte le conoscenze agrarie del passato che erano state accantonate e tacciate di inaccuratezza dall’avvento dell’agricoltura industriale, ma in realtà validissime ancora oggi, oltre che utili nel procedere verso la vera transizione ecologica, di cui abbiamo effettivamente bisogno. 

L’uso di fitosanitari chimici compromette la sopravvivenza degli impollinatori, fondamentali per la fertilità dei campi e la
produzione alimentare

La consapevolezza sulle potenzialità del metodo biologico ha spinto in Italia molte aziende a passare dal metodo convenzionale a quello BIO. Nel Sud Italia, per esempio, è successo con molti produttori di agrumi, olio e vino. E i costi del produrre in regime biologico? Molte aziende biologiche sono riuscite ad abbattere i costi di produzione e ora spendono un terzo rispetto al regime di agricoltura convenzionale. Le spese per la concimazione, per esempio, si riducono drasticamente, dal momento che i terreni non ne hanno bisogno e, anche quando la si fa, si utilizza il letame delle aziende agricole limitrofe, che ha un costo inferiore ai fertilizzanti chimici (anche perché servono molti meno fitofarmaci). Sono diversi gli esperti in agronomia, biodiversità e coltivazioni biologiche a sostenere proprio questo paradigma: tra i più noti in Italia vi è Francesco Santopolo, agronomo calabrese, che ha maturato una consapevolezza sul biologico proprio a partire da un’analisi tecnica e dai numeri che l’agricoltura convenzionale mostra nitidamente. Iniziò negli anni Ottanta del secolo scorso a capire che la difesa delle coltivazioni col metodo convenzionale, cioè con i pesticidi, non produceva gli effetti sperati, così ha cominciato a interessarsi allo studio degli insetti utili in agricoltura. «A un certo punto – racconta il professore – mi accorsi che gli insetti non morivano più e i funghi diventavano resistenti. La gente non vuole rendersi conto che tra il 1942 e il 2000 i danni da insetti sono aumentati del 6,2% pur in presenza di un aumento esponenziale di molecole chimiche. Erano 6, ora sono 380». La differenza di resa per ettaro tra produzioni biologiche e convenzionali va invece valutata settore per settore e alimento per alimento. Tuttavia, la produzione di minore quantità di cibo non dovrebbe rappresentare un problema nei Paesi occidentali, dove lo spreco alimentare ha raggiunto livelli impressionanti – viene gettato in discarica un terzo di tutto quello prodotto. Gran parte di quello che viene consumato, inoltre, è cibo industriale di pessima qualità che non solo non giova alla nostra salute ma contribuisce ai costi ambientali e alla riduzione della biodiversità. 

Secondo gli ultimi rapporti della FAO, in Europa e Stati Uniti d’America ogni anno si buttano via tra i 95 e i 115 kg di cibo buono per persona, tra il cibo che viene scartato e perso durante le fasi di produzione dalla Grande Distribuzione Organizzata, e quello sprecato e buttato nella pattumiera di casa dal consumatore finale. Nei Paesi dell’Africa sub-sahariana invece, nel Sud-Est asiatico e nell’Asia del Sud, lo spreco è di soli 6-11 kg per persona all’anno. La sproporzione è notevole e ricorda come i Paesi ricchi del pianeta producano tanto cibo da poter idealmente sfamare tutti gli abitanti del mondo, ma finiscono in realtà per buttarlo.  

Sostenibilità ambientale 

La coltivazione intensiva impoverisce il suolo riducendo la sostanza organica e ne accellera l’erosione

Analizzando poi il discorso della sostenibilità ambientale in relazione ai metodi biologico e convenzionale, vanno sottolineati alcuni aspetti che sono di importanza cruciale ma che vengono volutamente omessi o minimizzati dai sostenitori dell’agricoltura industriale convenzionale. Si tratta delle quantità di CO2 (anidride carbonica) che vengono emesse in atmosfera dall’agricoltura convenzionale, rispetto a quella BIO. Esiste infatti un rapporto di causa-effetto tra la perdita di sostanza organica nei terreni, dovuta ai continui cicli di aratura e concimazione chimica, e la produzione e liberazione nell’aria di anidride carbonica. Ripercorriamo per un momento il procedimento: l’erba e le foglie delle coltivazioni metabolizzano tramite fotosintesi l’anidride carbonica, liberano l’ossigeno nell’aria, trattengono il carbonio che si fissa nel terreno e si combina con le sostanze organiche. I continui cicli di aratura e di concimazione chimica distruggono le sostanze organiche, il carbonio viene liberato nell’aria e, combinandosi con l’ossigeno, diventa anidride carbonica. In sostanza, ogni volta che viene arato un campo che è stato iper concimato, questo contribuisce all’emissione di gas serra e al riscaldamento globale tanto quanto una colonna di camion in autostrada. 

Al contrario, la concimazione naturale limita fortemente la liberazione di carbonio nell’aria e la formazione di CO2 e gas serra. Non a caso, gli esperti definiscono quella biologica come agricoltura rigenerativa e conservativa, e lo stesso vale per l’allevamento.

Un’agricoltura migliore, rispettosa dell’ambiente, della sopravvivenza del nostro pianeta e dei cibi che produce non solo è possibile, ma si sta già realizzando, grazie a migliaia di agricoltori. Tuttavia, un vero cambiamento non sarà possibile senza un riorientamento delle nostre scelte di consumatori e fruitori. Dobbiamo imparare a fare delle scelte responsabili in merito a ciò che mettiamo sulle nostre tavole, che mangiamo al bar, al ristorante o nella mensa aziendale. Mai come oggi suona vera e profonda l’affermazione dello scrittore contadino americano Wendel Berry: «mangiare è un atto agricolo ed ecologico».

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Gianpaolo Usai

Educatore Alimentare, ha conseguito nel 2014 il Diploma di Nutrizione presso il College of Naturopathic Medicine (UK). Fondatore di ciboserio.it, il portale sulla spesa sana e l’educazione alimentare. Si occupa dello sviluppo di progetti di educazione alimentare in tutta Italia.