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La fuga di studenti e laureati costa al Sud Italia oltre 4 miliardi di euro l’anno

Ogni anno 134mila studenti e 36mila laureati abbandonano il Sud Italia per emigrare altrove: una fuga dai risvolti sociali ed economici, che si traduce in perdite superiori ai 4 miliardi di euro per la macroregione. A definire i contorni dell’emorragia silenziosa — uno dei tanti aspetti della mai sopita questione meridionale — è il rapporto [1] elaborato da Censis e Confcooperative, dal titolo: Sud, la grande fuga. Il fenomeno comporta nell’immediato una perdita di finanziamenti per gli atenei meridionali, a favore delle università del Centro-Nord, dove rette più salate pesano sulle famiglie degli studenti. A ciò si aggiunge la scelta dell’approdo lavorativo, che porta giovani ad alta qualificazione, formati con risorse meridionali, a restituire altrove quanto appreso.

«C’è un treno che parte dal Mezzogiorno ogni giorno. È carico di sogni, talenti, futuro, ma non torna mai indietro. Un trasferimento di ricchezza che risale dal Sud prendendo la strada del Nord», dice Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative, definendo la fuga di studenti come «una perdita sociale, economica, demografica, culturale. Un depauperamento silenzioso di risorse che svuota interi territori. Un pezzo della futura classe dirigente che se ne va, lasciando dietro di sé interrogativi sul destino del Mezzogiorno. Una fuga che al Sud costa oltre 4 miliardi». Censis e Confcooperative sviscerano il calcolo all’interno dell’ultimo rapporto, partendo dalla fuga degli studenti universitari: nel 2022, più di 134mila ragazzi si sono spostati dal Mezzogiorno verso gli atenei del Centro-Nord. Appena 10mila studenti hanno intrapreso il percorso inverno, per un saldo negativo di 124mila unità. Così, in un solo anno, le università meridionali hanno perso 145,4 milioni di euro di tasse, a vantaggio di quelle centro-settentrionali che, a causa di rette mediamente superiori, hanno visto entrare nelle proprie casse 256,1 milioni.

Sempre nel 2022, si legge nel rapporto Censis-Confcooperative, «23mila laureati al Sud hanno scelto le regioni centro-settentrionali come approdo lavorativo. Nel 2024, altri 13mila hanno varcato i confini nazionali. In totale, 36mila giovani ad alta qualificazione, con risorse meridionali, valorizzano le proprie competenze lontano dai luoghi che hanno investito nel loro futuro». Elaborando dati Istat, Ocse e Svimez, Censis ha stimato che la spesa sostenuta dallo Stato per l’intero ciclo di istruzione di una persona ammonti a 112mila euro. La cifra, moltiplicata per i 36mila laureati emigrati, restituisce una perdita di valore pari a 4,1 miliardi di euro: «soldi investiti dal Sud per formare una classe dirigente che poi sceglie di restituire altrove il proprio know how».

Quello economico non è l’unico risvolto della fuga di cervelli, che costa anche in termini sociali, tra mancato ricambio generazionale della popolazione, perdita di potenzialità ed energie, spopolamento [2] delle aree interne. La fuga, che da un punto di vista etimologico veicola un’azione legata all’evitare un danno o un pericolo, è spesso un’azione sofferta per gli stessi studenti e laureati, che per avere qualche chance lavorativa in più abbandonano i propri affetti in misura estremamente maggiore rispetto ai propri coetanei del Centro e Nord Italia. Si trovano a pagare il prezzo di scelte politiche (ultima l’autonomia differenziata [3]) che al posto di risolvere la questione meridionale e costruire un Paese a un’unica velocità, con uno sviluppo diffuso, hanno restituito due o tre tronconi separati tra loro: da un lato i servizi per i cittadini e le industrie, dall’altro deprivazione sociale, ultimamente scimmiottata e messa in scena come experience dagli speculatori della turistificazione [4].

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Salvatore Toscano

Laureato in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali, per L’Indipendente si occupa di politica, diritti e movimenti. Si dedica al giornalismo dopo aver compreso l’importanza della penna come strumento di denuncia sociale. Ha vinto il concorso giovanile Marudo X: i buoni perché della politica.