È tutto pronto per l’inizio della COP30 [1], la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2025. Gli incontri inizieranno domani, lunedì 10 novembre, a Belém, città portuale brasiliana situata sul limitare dell’Amazzonia, e termineranno il 21 novembre. Il vertice di quest’anno sarà particolarmente delicato: tra le varie cose, in ballo ci sono i tagli delle emissioni previsti per l’accordo di Parigi, i finanziamenti ai cosiddetti “Paesi meno sviluppati”, gli aiuti alle popolazioni indigene e il tentativo di istituire un fondo per la preservazione delle foreste. Agli incontri, tuttavia, mancheranno i leader di diversi Paesi importanti – primi fra tutti gli Stati Uniti – mentre i capi indigeni e i rappresentanti Paesi meno sviluppati faticano addirittura a trovare alloggio in città. Di contro, è prevista la presenza di lobbisti per le grandi multinazionali del fossile, storicamente più rappresentate delle popolazioni indigene.
Gli incontri di domani proveranno a fare passi avanti per il raggiungimento degli obiettivi delineati dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC [2]) e dall’accordo di Parigi [3]. La UNFCCC prevede di raggiungere «la stabilizzazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da impedire pericolose interferenze antropiche con il sistema climatico», e di farlo «entro un lasso di tempo sufficiente a consentire agli ecosistemi di adattarsi»; l’accordo di Parigi, invece, punta a limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 °C. Durante gli incontri si discuterà dei nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni da raggiungere entro il 2035; un altro dei progetti chiave promossi dalla guida brasiliana è il Tropical Forest Forever Facility, un fondo da 125 miliardi di dollari destinato alla preservazione delle foreste.
Agli incontri parteciperanno circa 50.000 persone. Ci saranno delegati da almeno 162 Paesi, rappresentanti indigeni, membri della società civile e lobbisti dei gruppi di idrocarburi; gli eventuali accordi raggiunti dai Paesi avrebbero valore vincolante. I problemi di rappresentatività si sono fatti sentire sin dall’organizzazione del vertice: Belém non ha infatti la capacità ricettiva per ospitare tutte le persone che avrebbero dovuto partecipare agli incontri. Prima della COP, la città contava circa 18.000 posti letto, e sin da gennaio, il governo brasiliano [4] ha stanziato decine di milioni di euro per cercare di aumentare l’offerta entro l’inizio del vertice. A oggi [5], Belém offre circa 53.000 alloggi di cui 14.547 in alberghi, 6.000 nelle crociere, 10.004 affitti tramite agenzie immobiliari e 22.452 Airbnb. Secondo quanto comunica il quotidiano francese Le Monde [6], all’inizio della scorsa settimana 49 Paesi che intendevano partecipare all’evento non erano ancora riusciti a trovare un alloggio; il ministro per l’Ambiente della Lettonia ha detto all’agenzia di stampa Reuters [7] di avere chiesto di potere partecipare ai tavoli tramite collegamento a distanza, perché i costi per gli alloggi erano troppo alti.
A risentire del problema dei costi e del numero degli alloggi sono stati propri i Paesi meno sviluppati, quelli dell’Alleanza dei piccoli Stati insulari, e i gruppi indigeni. Alcuni rappresentanti di questi ultimi hanno lanciato la Flotilla4Change [8], una iniziativa per arrivare a Belém tramite barca a vela. Decine di imbarcazioni si sono mosse da diverse località dell’Amazzonia, delle Ande, e di altri Paesi sudamericani come l’Ecuador trasportando circa 3.000 persone tra attivisti, scienziati dell’ambiente e, appunto, membri delle comunità indigene. Lo scopo è quello di mettere in risalto gli effetti della deforestazione e della carbonizzazione sulle comunità.
Chi invece non sembra avere avuto alcun problema con gli alloggi sono i lobbisti che lavorano per i gruppi di idrocarburi. Non è ancora noto quanti rappresentanti parteciperanno agli incontri di quest’anno, ma una recente analisi di Kick Big Polluters Out (KBPO [9]), una coalizione di 450 organizzazioni per l’ambiente, ha svelato i numeri degli anni precedenti. Negli ultimi quattro anni, tra il 2021 e il 2024, oltre 5.300 lobbisti hanno avuto accesso ai vertici ONU: alla COP26 erano presenti 503 lobbisti; alla COP27 ce n’erano 636; alla COP28 2.546; e alla COP29 1.773. L’anno scorso i lobbisti erano il 70% in più rispetto al numero totale dei rappresentanti delle Nazioni più vulnerabili al clima, e circa 10 volte il numero di delegati delle comunità indigene. I 5.300 lobbisti che hanno preso parte agli ultimi quattro incontri per l’ambiente hanno lavorato per 859 organizzazioni, tra cui 180 compagnie petrolifere di gas e carbone; la metà esatta di queste ultime rappresentano il 57% di tutto il petrolio e il gas prodotti lo scorso anno.
L’attività lobbistica ha avuto un ruolo negli accordi al ribasso [10] siglati l’anno scorso, in cui risultava centrale il programma di finanziamento dei Paesi meno sviluppati. Quest’anno, il contesto in cui inizia la COP30 non sembra promettere risultati tanto diversi: gli Stati Uniti non saranno presenti, e c’è chi ipotizza che Trump – da fuori – possa fare come già fatto per l’accordo sulle emissioni marittime [11], ossia esercitare pressione politica sui Paesi per spingerli a bocciare gli accordi troppo svantaggiosi per l’industria fossile. I ministri dell’Ambiente dell’UE hanno recentemente raggiunto un accordo [12] sul taglio delle emissioni, che tuttavia risulta più elastico di quanto originariamente previsto, e lo stesso Brasile [13] ha recentemente autorizzato nuove perforazioni petrolifere in due bacini dell’Amazzonia.