“Rischio morte più alto per chi non va a votare”, “Chi non vota muore prima”, “Astensionismo e rischio di morte”. In poche ore, questi titoli hanno invaso agenzie di stampa, siti di informazione e sono rimbalzati sui social network, imponendo un messaggio tanto netto quanto infondato: non votare accorcerebbe la vita. Tutto nasce da uno studio osservazionale condotto in Finlandia, che analizza dati statistici, ma che non consente in alcun modo di stabilire un rapporto di causa-effetto tra astensione e mortalità. Eppure, nel passaggio dai numeri di un’osservazione statistica alla narrazione giornalistica, la prudenza è svanita, lasciando spazio al sensazionalismo. La complessità della ricerca si è ridotta a slogan moralistici, trasformandosi in un verdetto esistenziale.
La ricerca [1], pubblicata sul Journal of Epidemiology & Community Health, ha esaminato l’intero elettorato finlandese delle elezioni parlamentari del 1999, composto da cittadini con più di trent’anni, seguendone la sopravvivenza fino al 2020. In totale, circa 3,18 milioni di persone – 1,51 milioni di uomini e 1,68 milioni di donne – sono state seguite per oltre vent’anni, dal giorno del voto fino al 2020. L’obiettivo era verificare se esistesse una relazione tra la partecipazione elettorale e la sopravvivenza nel lungo periodo. I risultati hanno mostrato che chi non aveva votato nel 1999 presentava un rischio di morte più alto: circa il 73% in più per gli uomini e il 63% per le donne rispetto a chi aveva votato. Anche dopo aver corretto i dati per livello d’istruzione – un indicatore spesso correlato alla salute e allo status socioeconomico – la differenza restava marcata, attestandosi su un incremento di mortalità del 64% negli uomini e del 59% nelle donne. Gli autori hanno sottolineato come la distanza tra votanti e non votanti fosse persino maggiore di quella riscontrata tra persone con basso livello di istruzione e laureati, ipotizzando che il comportamento elettorale possa riflettere un diverso grado di “capitale sociale”, ovvero di partecipazione e integrazione nella vita comunitaria. Siamo, però, nel campo delle speculazioni: lo studio è di natura puramente osservazionale e gli stessi ricercatori mettono in guardia da interpretazioni eccessive: «Una limitazione di questo studio è che non può distinguere in modo adeguato la direzione del rapporto di causalità tra lo stato di salute e il rischio di morte». Il fatto che chi non vota muoia più spesso non significa che l’astensionismo causi la morte, come invece alcuni media italiani hanno lasciato intendere. L’ipotesi di fondo è che è i soggetti in condizioni di salute peggiori, più isolati o socialmente vulnerabili, tendano anche a partecipare meno alla vita politica. La correlazione, quindi, riflette uno squilibrio sociale e sanitario preesistente, non un legame diretto tra voto e longevità.
Gli autori stessi riconoscono i limiti metodologici e l’impossibilità di trarre conclusioni di tipo causale dal loro lavoro, invitando a non interpretare i risultati come prova che l’astensionismo “causi” una maggiore mortalità: «Futuri studi longitudinali, che includano misurazioni ripetute della partecipazione a più elezioni e dello stato di salute, potrebbero stabilire meglio eventuali associazioni causali e ridurre l’incertezza nell’individuare abitudini di voto stabili», scrivono. Lo studio, semmai, osserva che le persone più vulnerabili, socialmente o fisicamente, votano di meno: «Alcuni individui possono incontrare ostacoli che impediscono loro di votare o scegliere di non farlo in una determinata elezione». Una distinzione essenziale che, però, è andata perduta nelle versioni diffuse da agenzia di stampa e da testate italiane, da Agi [2] ad Adnkronos [3] fino al Quotidiano Nazionale [4], con titoli che trasformano una correlazione in un destino biologico. Il cortocircuito comunicativo nasce qui: una ricerca descrittiva diventa, per effetto di titoli sensazionalistici e sintesi superficiali, un dogma sociologico. Il problema non è lo studio in sé, che ha un suo valore accademico e propone una riflessione interessante sul legame tra capitale sociale e salute, quanto la sua traduzione giornalistica, che semplifica fino all’assurdo, diventando la formula perfetta per le prime pagine e per acchiappare click.