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A Tulkarem, tra i 40.000 palestinesi a cui Israele impedisce di tornare a casa da 9 mesi

TULKAREM – Palestina occupata. «La mia casa è stata completamente demolita, e non me l’hanno nemmeno detto. Non ho potuto recuperare nulla», dice Amira a L’Indipendente, mentre decine di persone del campo profughi di Nur Shams si radunano nell’area di Jabal al-Nasr per iniziare la protesta in direzione del campo profughi, sgomberato e occupato dai militari israeliani da inizio febbraio. È mezzogiorno del 5 novembre, l’ora che molti residenti si sono dati per incontrarsi e tornare a pretendere i propri diritti. «Sono qui per stare con la mia gente, per lottare insieme affinché possano tornare alle proprie case. Molte abitazioni sono state distrutte, ma altre no, e le persone non possono permettersi di pagare l’affitto, l’acqua, l’elettricità. Vogliamo tornare a casa».

Nur Shams è uno dei due campi profughi di Tulkarem, nel nord della Cisgiordania occupata. Dal 27 gennaio l’esercito israeliano ha cominciato una violenta aggressione ai campi profughi della città, obbligando decine di migliaia di persone a lasciare le proprie case, in quella che Israele ha dichiarato essere un’operazione antiterrorismo che doveva durare pochi giorni. Sono passati oltre 9 mesi e i profughi dei tre refugee camp occupati – Tulkarem Camp, Nur Shams e Jenin Camp – sono almeno 40mila; centinaia le case totalmente o parzialmente distrutte, così come negozi, scuole, tutte le strade e molte delle infrastrutture elettriche e idriche.

La piccola manifestazione parte in direzione del campo; nemmeno trecento metri dopo, due jeep militari ci vengono incontro e scendono vari soldati. Dai mezzi un militare tiene il fucile puntato sulla folla. Il messaggio è chiaro: se continuate a camminare, spariamo. Il gruppo, si ferma. «Quella è la mia casa» una donna indica la prima abitazione che sorge davanti a noi, dietro la linea degli israeliani. Gli occhi, neri, sono pieni di tristezza. «L’hanno resa una delle loro basi militari».

Il campo profughi sembra essere diventato un terreno di esercitazione per i soldati di Tel Aviv: a parte qualche centinaia di persone che continuano a vivere ai bordi estremi del campo, non c’è più nessun residente, forzato dietro la minaccia delle armi ad andarsene. Eppure si sentono quotidianamente centinaia di spari. Secondo la testimonianza di alcuni ex prigionieri, varie case vengono utilizzate come caserme dove i militari detengono e interrogano le persone arrestate.

I soldati minacciano di aprire il fuoco se non si torna indietro. Pretendono che solo tre uomini rimangano a parlamentare con loro. La piccola folla arretra di una cinquantina di metri; tre persone restano a discutere con i soldati.

Yousef ha dodici anni. La sua famiglia ha dovuto lasciare la propria casa nell’ottobre del 2024, perché troppo danneggiata da uno dei numerosi [1] raid israeliani che quasi settimanalmente invadevano il campo profughi distruggendo strade, case e infrastrutture. Si era trasferita in un’area del campo più sicura, fino a quando è cominciata l’operazione Iron Wall. «Ci hanno sgomberato il 29 gennaio, e da allora siamo senza casa» dice a L’Indipendente. «Siamo qui per chiedere i nostri diritti e per poter tornare a casa. La sofferenza è enorme, soffriamo ogni giorno fuori dalle nostre case». Migliaia di famiglie, ritrovatesi per strada, sono state ospitate prima dai parenti, in moschee e scuole; poi, hanno dovuto trovare alloggi in affitto. Le difficoltà economiche sono evidenti, soprattutto in un periodo in cui il lavoro scarseggia e i prezzi non fanno che aumentare.

Sono almeno 10mila le persone sgomberate dal campo profughi di Nur Shams; 15mila quelle sfollate da Tulkarem Camp, e almeno altrettante coloro che hanno dovuto lasciare la propria casa a Jenin refugee camp. L’Operazione Iron Wall è cominciata a Jenin il 21 gennaio, appena tre giorni dopo il primo cessate-il-fuoco, ed è stata allargata a Tulkarem il 27 gennaio. L’occupazione di Nur Shams è iniziata qualche giorno dopo. In questi 9 mesi sono almeno 600 le case [2] distrutte nei due campi di Tulkarem, e 2573 quelle parzialmente danneggiate. 14 le persone uccise in città, tra cui un bambino e due donne, una delle quali incinta di otto mesi. Decine i feriti e centinaia le persone arrestate.

Israele giustifica l’operazione come antiterrorismo e da due anni impegna centinaia di uomini per eliminare ogni forma di resistenza armata [3] che si è sviluppata nel cuore dei campi profughi del nord della Cisgiordania occupata. Le Brigate cittadine di Tulkarem e Jenin, nate per opporsi alle violenti incursioni israeliane nei propri quartieri e all’avanzare dell’occupazione sionista, avevano visto aumentare i propri effettivi proprio come risposta al genocidio in corso a Gaza e ai continui attacchi dei militari di Tel Aviv in Cisgiordania. Come risposta, Israele ha voluto “punire” tutta la popolazione che aveva osato resistere e ospitare la resistenza armata. Rendendo inabitabili i campi profughi, e causando una nuova, piccola Nackba. Pochi giorni fa Tel Aviv ha dichiarato che l’Operazione continuerà fino al 31 gennaio 2026.

I tre uomini rimasti a discutere con i soldati tornano, la folla si avvicina ad ascoltare. I militari dicono che non se ne andranno finché l’UNRWA – la stessa agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi contro cui Israele sta lottando da anni – non sarà nel campo e finché l’Autorità palestinese non ricostruirà le strade. Una nuova presa in giro, che nessuno ha voglia di assecondare. Piano piano il gruppo si disperde. Ma tornerà a manifestare.

Em Muhanna, la “madre di Muhanna”, riassume così la storia: «Quello che è successo è che i giovani del campo hanno deciso di stare al fianco delle persone di Gaza, come ogni essere umano libero farebbe. L’occupazione israeliana ha deciso di scatenare una punizione collettiva per tutte le persone del campo; stiamo pagando un prezzo molto alto per essere stati al fianco di Gaza. Ci hanno distrutto le case, le strade, le infrastrutture, hanno ucciso molte persone e ne hanno arrestate moltissime altre. Ma comunque, il prezzo pagato non è comparabile con il sangue pagato dalle persone di Gaza, che Dio le protegga. Vogliamo tornare alle nostre case. Abbiamo sempre lavorato per la nostra sopravvivenza: non vogliamo la carità di nessuno. Vogliamo solo poter tornare a casa».

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Moira Amargi

Moira Amargi esiste ed è una persona specifica, ma il nome è uno pseudonimo, usato quando pubblica report sulla Palestina o dall'interno di cortei e momenti di conflitto sociale a rischio repressione. È corrispondente per L'Indipendente dal Medio Oriente e dai Territori Palestinesi occupati.