«Il genocidio in corso a Gaza è un crimine collettivo, sostenuto dalla complicità di influenti Stati terzi, che hanno reso possibili politiche durature di occupazione, assedio e bombardamento». Con queste parole, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, introduce il suo ultimo rapporto, Gaza Genocide: A Collective Crime (A/80/492), in cui accusa Israele di condurre una campagna di distruzione «intenzionale e sistematica» contro la popolazione palestinese, con la complicità di Stati terzi e imprese che, attraverso il prolungato sostegno militare, politico, diplomatico ed economico, avrebbero reso possibile il massacro. Il documento evidenzia anche la riluttanza, da parte della comunità internazionale, a chiedere conto a Israele delle proprie azioni, che hanno consentito a quest’ultimo di consolidare nel territorio palestinese occupato «il proprio regime di apartheid coloniale d’insediamento», arrivando a un livello di violenza «senza precedenti». Il rapporto non parla più soltanto di “crimini di guerra” o “uso sproporzionato della forza”, ma di un progetto coordinato per annientare un gruppo umano protetto dal diritto internazionale. Un’accusa che, se accolta, potrebbe ridefinire le responsabilità globali nel conflitto e aprire la strada a incriminazioni per genocidio.
Un crimine collettivo
Nel rapporto [1] A/80/492, la relatrice ONU identifica chiaramente una responsabilità estesa oltre i confini della Striscia. Il documento è stato elaborato attraverso una revisione dei materiali delle Nazioni Unite, incluso il rapporto del Segretario Generale A/79/588, e 40 contributi provenienti da attori statali e non statali. Tutti i 63 Stati menzionati nel rapporto hanno avuto la possibilità di commentare eventuali errori o inesattezze fattuali; 18 Stati hanno presentato una risposta. Il testo afferma che «la distruzione delle infrastrutture civili, la privazione dell’accesso ai mezzi di sussistenza essenziali, il trasferimento forzato di ampi segmenti della popolazione e l’imposizione di condizioni di vita intese a provocare la distruzione parziale o totale del gruppo protetto, in tutto o in parte» sono elementi che testimoniano l’intenzione genocidaria. Non si tratta, dunque, di danni collaterali o incidenti di guerra, ma di un progetto complessivo di distruzione.
Una responsabilità condivisa e radicata
La responsabilità, secondo Albanese, è condivisa e «non ricade solo sulla Potenza occupante». Oltre a Israele, infatti, anche gli Stati terzi «sono vincolati da obblighi non solo di astenersi dal prestare aiuto o assistenza nella commissione del genocidio o di altri atti gravi, ma anche di adottare misure attive per prevenire atti genocidari quando il rischio è noto o avrebbe dovuto essere noto». Negli ultimi due anni, invece, una «complicità radicata», che ha abbracciato la narrazione di Tel Aviv e ha promosso la propaganda israeliana, «ha messo a tacere gli appelli urgenti all’azione e offuscato la rete di interessi politici, finanziari e militari in gioco». L’uso della Convenzione sul genocidio del 1948 come quadro interpretativo è centrale: tre degli atti previsti dalla Convenzione sarebbero «ampiamente documentati», mentre gli altri due «richiedono approfondimento» ma nel complesso «suggeriscono un’intenzione genocidaria».
Le accuse agli USA

Durissime le accuse rivolte agli Stati Uniti. Da sempre, gli USA sostengono Israele con aiuti finanziari e militari, garantendone il “vantaggio militare qualitativo”. Dal 1967, Israele è il principale destinatario dei fondi FMF, ricevendo 3,3 miliardi l’anno più 500 milioni per la difesa missilistica. Washington fornisce armi, accesso agli arsenali USA e fondi per l’acquisto di jet e munizioni, anche da aziende israeliane. Parallelamente, l’acquisto israeliano di caccia F-15, F-16 e F-35 e di munizioni è sostenuto dall’accesso a fondi di approvvigionamento destinati alle filiali israeliane negli Stati Uniti. Dopo il 7 ottobre 2023, gli USA hanno usato sette volte il veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, bloccando i cessate il fuoco e garantendo copertura diplomatica a Israele. Negli ultimi due anni, gli USA hanno inviato 742 spedizioni di armi a Israele e approvato vendite per decine di miliardi, riducendo la trasparenza e aggirando il Congresso e hanno fornito artiglieria, missili, fucili e bombe, oltre a droni e forze speciali impiegati nei raid su Hamas. Entro aprile 2025, Israele contava 751 contratti attivi per 39,2 miliardi.
La complicità degli altri Paesi

Washington non è isolata: astensioni, ritardi e bozze di risoluzioni indebolite da parte dei suoi alleati hanno permesso la prosecuzione delle operazioni israeliane. Il Regno Unito, allineato agli USA fino al novembre 2024, ha svolto un ruolo chiave nella cooperazione militare con Israele, garantendo da Cipro i rifornimenti statunitensi e conducendo oltre 600 missioni di sorveglianza su Gaza, condividendo intelligence con Tel Aviv. Tra ottobre 2023 e ottobre 2025, 26 Paesi – tra cui Italia, Cina, India e Francia – hanno fornito armi o componenti a Israele, spesso attraverso canali opachi o “dual use” (espressione che si riferisce a prodotti, tecnologie e servizi che possono avere sia un impiego civile sia uno militare). L’Italia, terzo esportatore verso Israele nel periodo 2020-2024, ha proseguito le forniture e consentito il transito di armamenti nei propri porti e aeroporti, pur dichiarando di rispettare i vincoli internazionali. Inoltre, partecipa con Israele a esercitazioni congiunte come INIOCHOS e manovre guidate da AFRICOM, contribuendo indirettamente al rafforzamento dell’apparato militare israeliano. Nel frattempo, Israele ha aumentato del 18% le esportazioni di armi, testate in Gaza, con l’Unione Europea come principale acquirente.
Dati, testimonianze e distruzioni

Il rapporto documenta una vasta gamma di violazioni: strutture civili distrutte o danneggiate, accesso all’acqua, all’elettricità e al carburante gravemente limitato, ospedali sovraccarichi o distrutti, e una popolazione che subisce mobilità quasi nulla. Albanese sottolinea che queste condizioni non sono conseguenze accidentali della guerra, ma «parte integrante di una strategia di distruzione». Le imprese internazionali svolgono un ruolo nel sistema descritto: secondo il rapporto, «i trasferimenti di armi da parte degli Stati, il mantenimento del supporto diplomatico e politico alle operazioni militari, e la prosecuzione di relazioni commerciali “business as usual” con la potenza occupante consentono alla macchina della distruzione a Gaza di operare con impunità». In questo modo, l’economia dell’occupazione si trasforma – secondo la relatrice – in un’economia del genocidio, alimentata da profitti e interessi privati e pubblici. Il precedente rapporto [2] From Economy of Occupation to Economy of Genocide aveva già suscitato scalpore internazionale, parlando apertamente di “economia del genocidio“, citando le aziende conniventi con i crimini perpetrati da Israele. A seguito di quella denuncia, gli Stati Uniti, il 9 luglio 2025, hanno imposto sanzioni contro Francesca Albanese.
Il ruolo degli Stati terzi e delle imprese
Ora, il nuovo rapporto sfida direttamente governi e imprese oltreconfine: 63 Stati, molti dei quali europei, avrebbero mantenuto forme di sostegno politico, militare o economico a Israele pur essendo a conoscenza dei rischi di crimini internazionali. Le imprese globali sono chiamate in causa per avere «facilitato o acconsentito alla distruzione di un gruppo protetto» e, per questo, gli Stati dovrebbero considerare la «responsabilità penale delle imprese» sul modello dei precedenti processi internazionali. La relatrice invita i governi a intervenire con misure di sanzione, cessazione di accordi commerciali e revoca di licenze militari o dual-use verso Israele e le sue filiere.
Impatti umanitari e civili

Al centro del documento ci sono gli effetti sulla vita quotidiana della popolazione della Striscia di Gaza. La privazione di mezzi di sussistenza, il blocco prolungato degli aiuti, l’interruzione dei trasporti verso l’esterno e la costante minaccia di bombardamenti hanno portato a condizioni di sopravvivenza estreme. Secondo Albanese, l’intero sistema è progettato affinché «la distruzione della vita quotidiana nella Striscia di Gaza sia deliberata e concertata». La relatrice nota come l’intera popolazione venga trattata non come un danno collaterale, ma come un obiettivo deliberato. Le infrastrutture civili – centri sanitari, scuole, reti elettriche e idriche – sono ripetutamente distrutte o rese inoperanti; il risultato è una crisi umanitaria che non è semplice conseguenza della guerra, ma elemento integrante del progetto di estinzione del gruppo protetto.
Raccomandazioni e responsabilità internazionale
Alla fine del rapporto, Albanese formula raccomandazioni incisive: l’immediato cessate il fuoco, l’embargo sulle armi verso Israele, il blocco delle imprese che operano nei territori occupati, l’istituzione di una forza internazionale per proteggere la popolazione della Striscia e meccanismi giudiziari nazionali e internazionali per perseguire Stati e imprese che agevolano il genocidio. In tal senso, si afferma che «non c’è bisogno di attendere la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia per definire questa dinamica come genocidaria: il dovere di prevenire e reagire è già immediato». Il messaggio è chiaro: il sistema internazionale non può più trattare la Striscia di Gaza come un teatro periferico di conflitto, ma come un laboratorio di distruzione di un gruppo protetto, di cui tutti – occupante, Stati terzi, imprese – sono potenzialmente corresponsabili.
Quali implicazioni per l’Italia e l’Europa?
Per l’Italia e l’Europa, il rapporto impone una riflessione non più rinviabile. Se molti Stati europei sono indicati come “facilitatori” – direttamente o indirettamente – delle politiche messe in luce da Albanese, allora diventa urgente considerare strumenti normativi e politici che vanno oltre le dichiarazioni di condanna: revoca di licenze d’armamento, sospensione di accordi commerciali con Israele, esame dell’impatto delle imprese europee che operano nei territori occupati, e un cambio reale di strategia verso la protezione della popolazione palestinese.
I Paesi sono chiamati a scegliere

Dal rapporto di Albanese emerge un quadro allarmante e complesso: una popolazione sotto attacco continuato, una strategia di distruzione sistematica, un’economia della guerra che coinvolge imprese globali, e un sistema internazionale che collabora, resiste o resta inerte. Alla luce della gravità delle accuse avanzate, la pace e la stabilità del Medio Oriente – e di riflesso dell’Europa – si trovano di fronte a un bivio storico: intervenire concretamente, o restare complici per omissione. Il rapporto non rappresenta solo una denuncia delle politiche di occupazione o della distruzione degli insediamenti, è un richiamo all’intera architettura internazionale. «Il mondo» si legge nelle conclusioni, «sta osservando Gaza e l’intera Palestina. Gli Stati devono assumersi le proprie responsabilità. Solo garantendo al popolo palestinese il diritto all’autodeterminazione – così sfacciatamente violato dal genocidio in corso – potranno smantellare le strutture coercitive globali che perpetuano l’oppressione. Nessuno Stato può affermare con credibilità di aderire al diritto internazionale mentre arma, sostiene o protegge un regime genocidario. Tutto il sostegno militare e politico deve essere sospeso; la diplomazia deve servire a prevenire i crimini, non a giustificarli. La complicità nel genocidio deve finire». Anche l’Italia è chiamata a scegliere: continuare nella complicità di un sistema che beneficia del modello militare-economico delineato, oppure, impegnarsi nella protezione di un popolo sottoposto al genocidio. La posta in gioco non è solo diplomatica: è la credibilità del diritto internazionale e la protezione dell’umanità contro la distruzione sistematica di un gruppo vulnerabile.