Vi sono componenti degli organi di amministrazione, responsabili tecnici e direttori di cantiere tra i 12 indagati a vario titolo per i reati di inquinamento ambientale e omessa bonifica nell’ambito dei lavori di realizzazione della Superstrada Pedemontana Veneta. Le notifiche di conclusione delle indagini sono state inviate dalla procura di Vicenza, che da mesi indagava sulla presenza di sostanze tossiche nelle acque di scolo dell’infrastruttura, la quale avrebbe comportato la contaminazione dell’ecosistema e delle fonti idriche potabili di Vicenza e Padova. Secondo le ipotesi, gli indagati non avrebbero rispettato le prescrizioni tecniche relative alla composizione del calcestruzzo, impiegando un accelerante contenente PFBA, una tipologia di PFAS – sostanze chimiche “eterne” che, accumulandosi nell’ambiente e negli organismi umani, provocano gravi danni alla salute.
La contaminazione sarebbe avvenuta in un periodo compreso tra il 28 giugno 2021 e il 23 gennaio 2024 nei territori di Castelgomberto, Malo e Montecchio Maggiore (tutti in provincia di Vicenza), come riporta una nota [1] dell’Arma dei carabinieri. Gli indagati avrebbero «omesso di rispettare le prescrizioni tecniche relative alla composizione di calcestruzzo proiettato utilizzato per varie opere in sotterraneo, impiegando un additivo accelerante denomiato “Mapequick AF1000” contenente acido perfluorobutanoico (PFBA) in concentrazioni superiori ai valori di soglia indicati dal parere dell’Istituto Superiore di Sanità n.24565/2015». In questo modo, si sarebbe determinata «una contaminazione significativa delle acque superficiali e sotterranee insistenti nelle aree interessate dai lavori». Contro gli indagati sono state anche formulate le accuse di omessa bonifica e mancato ripristino dei luoghi, «nonostante la piena coscienza dell’avvenuto inquinamento».
I fatti [2] avevano cominciato a venire alla luce a seguito di un esposto del Comitato Veneto Pedemontana Alternativa (Covepa), il quale nel 2023 aveva sollecitato il ministero dell’Ambiente a indagare sugli scarichi di acque di drenaggio provenienti dalle gallerie della superstrada. A seguito di mesi di approfondimenti, il ministero aveva chiesto un’indagine tecnico-scientifica, la quale aveva confermato la presenza di PFBA nelle acque delle falde. Una relazione dell’ISPRA aveva riportato che «le acque di drenaggio in uscita dalle gallerie di Malo e di Sant’Urbano rappresentano delle fonti, tuttora attive, di inquinamento da PFBA delle acque superficiali e sotterranee e, inoltre, il PFBA è individuabile come fattore di potenziale danno ambientale alle acque superficiali, in quanto suscettibile di incidere sullo stato ecologico delle stesse, nonché sullo stato di qualità delle acque sotterranee destinate ad uso potabile».
Lo scorso 8 ottobre, Andrea Zanoni, consigliere regionale, aveva presentato [3] una interrogazione alla Giunta Regionale, dopo aver visionato dati di un tavolo tecnico risalente al 17 giugno di quest’anno nei quali emerge come 3 milioni di metri cubi di terre da scavo contaminate da PFBA siano state depositate in 20 siti, in particolare nelle acque di “ruscellamento”, con concentrazioni dell’inquinante fino a 2000 ng/litro. Si tratta di valori «spaventosi», sostiene Zanoni, che confermano che «l’opera è stata realizzata senza il rispetto per l’ambiente e la salute pubblica, come dimostrano i valori già rilevati a Castelgomberto, dove sono stati trovati PFAS in concentrazioni elevatissime, pari a 263.000 ng/litro». Nell’interrogazione viene sottolineato come 7 dei 31 pozzi idropotabili di Caldogno siano stati chiusi.
Negli ultimi anni, il Veneto è stato interessato anche da un’altra vicenda giudiziaria legata all’inquinamento da PFAS, che amplifica l’allarme per l’attuale contaminazione. Nel 2013 è stata infatti scoperta la contaminazione di una vasta falda acquifera che ha coinvolto circa 350 mila cittadini nelle province di Vicenza, Verona e Padova. Tra il 2015 e il 2016, rilevazioni a campione hanno evidenziato la presenza di elevate concentrazioni di PFAS nel sangue dei residenti, fino a che non è stato dichiarato lo stato di emergenza, nel 2018, insieme all’istituzione di una zona rossa che ha interessato 30 Comuni, con divieto di utilizzo dell’acqua potabile. Per quei fatti, nel processo di primo grado contro i dirigenti della Miteni di Trissino, sono state emesse condanne fino a 17 anni contro 11 imputati.
La Pedemontana Veneta, oltre che una bomba a orologeria per la salute dell’ambiente e dei residenti, si è rivelata anche un’opera dai costi esorbitanti per i cittadini veneti. In soli [4] nove mesi, nelle casse della Regione Veneto si è generato un buco da 47 milioni di euro, per via del canone annuo (destinato a salire fino a superare i 332 milioni di euro nel 2059) che la Regione deve versare alla società costruttrice SIS. Per questo motivo, l’opera è da tempo finita nel mirino della Corte dei Conti, che ha inoltre raccomandato l’applicazione di sanzioni per i ritardi nel terminare i lavori (il termine fissato era il 2020, ma l’ultima tratta è stata aperta solamente nel 2023, mentre l’interconnessione con l’A4 è stata conclusa solamente nel 2024). Vi sono inoltre 20 milioni di euro che la Regione ha versato al concessionario anche se non dovuti, nonché il nodo della possibile riclassificazione della superstrada, che consentirebbe di aumentare il limite di velocità da 110 a 130 km/h, equiparandolo a quello delle autostrade.