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Legami tra talco e cancro: Johnson & Johnson dovrà pagare 966 milioni di dollari

Un tribunale di Los Angeles ha inflitto una sonora sconfitta a Johnson & Johnson: la giuria ha condannato l’azienda a versare 966 milioni di dollari in favore dei familiari di Mae Moore, una donna californiana morta nel 2021 per mesotelioma, ritenuto causato dall’esposizione ad amianto presente nei prodotti a base di talco del colosso farmaceutico. Il verdetto ha una portata storica, in quanto è stata riconosciuta la responsabilità morale e civile di una multinazionale accusata da anni di aver minimizzato i rischi legati all’uso del talco contaminato. Trey Branham, uno degli avvocati che rappresentano la famiglia Moore, ha dichiarato dopo il verdetto che il suo team «spera che la Johnson & Johnson si assuma finalmente la responsabilità di queste morti insensate».

Secondo il verdetto, 16 milioni copriranno i danni compensativi, mentre ben 950 milioni rappresentano il risarcimento punitivo, con l’intento di colpire l’azienda oltre che risarcire le vittime. La reazione di Johnson & Johnson è stata immediata: la multinazionale ha annunciato che presenterà appello, definendo la decisione «atroce e incostituzionale» e ribadendo che le accuse sarebbero basate su «scienza spazzatura», ovvero studi scientifici difettosi e non attendibili. Da anni l’azienda sostiene che i suoi prodotti siano sicuri, privi di amianto e non correlati a malattie tumorali. Tuttavia, già nel 2020, spinta da un’ondata di denunce e dalla perdita di fiducia dei consumatori, J&J aveva sospeso la vendita [1] del talco per bambini negli Stati Uniti, sostituendolo con polveri a base di amido di mais, segno che la pressione mediatica e giudiziaria aveva iniziato a produrre i suoi effetti. Il maxi-risarcimento, tuttavia, potrebbe essere ridotto in appello, poiché la Corte Suprema statunitense ha stabilito che i danni punitivi non dovrebbero superare di nove volte quelli compensativi.

Il caso Moore rappresenta l’ultimo capitolo di una lunghissima battaglia legale che vede coinvolte decine di migliaia di persone in tutto il mondo. Da anni, i querelanti sostengono che i prodotti per l’igiene personale di Johnson & Johnson, tra cui il celebre borotalco, contenessero tracce di amianto in grado di provocare gravi patologie, tra cui tumori ovarici e mesoteliomi. Si stima che, nel 2025, le cause pendenti contro la società superino le 67.000. Nel corso degli anni, l’azienda ha tentato in più modi di chiudere la vicenda: nel 2023 aveva offerto 9 miliardi di dollari per mettere fine alle accuse legate al talco, mentre nel 2024 ha raggiunto un accordo da 700 milioni di dollari per risolvere alcune cause [2] promosse dai procuratori generali di diversi Stati americani. Sempre nel 2024, la società ha presentato un piano da 6,5 miliardi di dollari, distribuiti in 25 anni, per chiudere il 99,75% delle richieste di risarcimento per cancro ovarico [2]. Tutti questi tentativi avevano un obiettivo chiaro: contenere i danni economici e salvaguardare l’immagine del marchio, senza mai ammettere una responsabilità diretta. Le strategie giudiziarie e finanziarie di Johnson & Johnson non hanno convinto i tribunali. In più occasioni, infatti, i giudici federali hanno respinto i tentativi della multinazionale di spostare le cause all’interno di società veicolo create ad hoc per dichiarare il fallimento e ridurre i debiti legali, ritenendo tali manovre una distorsione della legge fallimentare. Nell’ultimo anno, J&J ha ottenuto diverse sentenze importanti in casi di mesotelioma, ma quella di lunedì è tra le più consistenti. L’azienda ha vinto [3] alcuni processi per mesotelioma, tra cui quello della scorsa settimana in South Carolina, dove una giuria ha dichiarato J&J non responsabile ed è riuscita a ridurre alcuni risarcimenti in appello, tra cui un caso in Oregon [4] in cui un giudice statale ha accolto la richiesta della multinazionale di annullare un verdetto di 260 milioni di dollari e di tenere un nuovo processo. Il caso Mae Moore, dunque, chiude simbolicamente una fase di tattiche dilatorie e apre un nuovo capitolo in cui il peso della responsabilità aziendale viene riaffermato con forza.

La condanna da 966 milioni di dollari non rappresenta solo un evento giudiziario, ma un segnale di svolta nel modo in cui l’opinione pubblica e la giustizia guardano al rapporto tra salute e industria. Se confermata in appello, la sentenza potrebbe costituire un precedente importante, rafforzando le posizioni delle migliaia di querelanti che ancora attendono giustizia. Anche se l’importo dovesse essere ridimensionato, il messaggio lanciato dal tribunale è chiaro: le multinazionali non possono più nascondersi dietro le strategie legali per eludere le proprie responsabilità. Per Johnson & Johnson, questo verdetto rischia di trasformarsi in una condanna più pesante della cifra in sé: una condanna morale che mette in discussione decenni di pubblicità e di fiducia costruite attorno all’immagine di un marchio “per la famiglia”. La vicenda del talco contaminato diventa così un caso emblematico del conflitto tra profitto e salute, tra le logiche di mercato e il diritto dei cittadini a conoscere la verità sui prodotti che utilizzano quotidianamente, spingendo sempre più verso una revisione dei protocolli di sicurezza. L’industria cosmetica e farmaceutica è oggi chiamata a fare i conti con una nuova consapevolezza: non basta proclamare la sicurezza di un prodotto, serve dimostrarla in modo trasparente, accettando la possibilità di un errore. Quella di Mae Moore non è più una storia isolata: è il simbolo di una giustizia che, dopo anni di silenzi e compromessi, inizia finalmente a chiedere conto del prezzo umano pagato sull’altare del profitto.

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Enrica Perucchietti

Laureata con lode in Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista, scrittrice ed editor. Collabora con diverse testate e canali di informazione indipendente. È autrice di numerosi saggi di successo. Per L’Indipendente cura la rubrica Anti fakenews.