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Cronache dall’oblio: 9 guerre invisibili di cui non si parla

Non è il numero di bombe e purtroppo nemmeno il numero delle vittime a misurare la “vicinanza” di una guerra, ma la presenza – o meno – di notizie ed analisi nelle cronache quotidiane. Oggi che la guerra è tornata alle porte del Vecchio continente e che Israele porta avanti indisturbato il proprio piano genocidiario, senza più nemmeno nascondere la volontà di appropriarsi di terre che non gli appartengono, noi occidentali riusciamo comunque a vivere la nostra quotidianità senza grossi problemi. I pochi “fastidi” arrivano da chi queste guerre ce le ricorda, da chi scende in strada a manifestare per dissociarsi da ciò che accade e perché il proprio governo prenda posizione, da chi ha avuto il coraggio di rischiare tutto, imbarcandosi sulla Global Sumud Flotilla solo per l’idea di un futuro migliore e più umano. Raccontare le guerre in atto significa spezzare il silenzio; non per uno sterile esercizio di memoria, ma per restituire ai numeri e alle statistiche che parlano di esseri umani morti ammazzati da altri esseri umani, volti e storie che la narrazione mainstream aveva deciso che andassero dimenticate.

Secondo ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project), un’ONG che raccoglie, codifica e mappa in tempo reale eventi di violenza politica e proteste in tutto il mondo, ad oggi i conflitti attivi nel mondo sono 56, coinvolgendo direttamente o indirettamente 92 Paesi. Noi ne abbiamo analizzati 9.

Sudan

Oggi, a causa del conflitto in Sudan, oltre 12 milioni di persone sono state costrette a fuggire tra sfollati interni e rifugiati all’estero. La foto è tratta da un campo profughi in Ciad

Era il 15 aprile del 2023, quando la milizia paramilitare delle Rapid Support Forces (RSF), guidata da Mohamed Hamdan Dagalo, attaccò basi dell’esercito regolare del Sudan (SAF) in tutto il Paese, trasformando in poche settimane Khartum e le province del Darfur in teatri di scontro urbano e rurale e riaccendendo un conflitto sopito che dura da anni. Questa guerra si innesta infatti su una storia – brutta – molto più lunga: il Darfur è stato teatro, dal 2003 in poi, di campagne governative contro popolazioni locali con milizie janjāwīd – filogovernative – accusate di crimini di massa e descritte da osservatori internazionali come atti assimilabili a genocidio. Proprio in questi giorni Ali Muhammad Ali Abd-Al-Rahman, uno dei leader del movimento janjāwīd, è stato condannato [1] dalla Corte Penale Internazionale, colpevole di 27 capi d’imputazione per crimini contro l’umanità e crimini di guerra risalenti agli attacchi del 2003 e del 2004. Mentre ci sono ancora diversi processi in corso, è il primo leader militare ad essere condannato.

Oggi oltre 12 milioni di persone sono state costrette a fuggire tra sfollati interni e rifugiati all’estero, mentre quasi 30 milioni (più della metà della popolazione) necessitano di assistenza. Le vittime dirette e indirette (violenza, fame, malattie) sono difficili da contare: database e studi stimano cifre molto diverse — da alcune decine di migliaia (registrate da ACLED) a stime più alte che indicano decine di migliaia in più; studi epidemiologici locali segnalano centinaia di migliaia di decessi se si considera l’impatto totale sulla salute pubblica.

Etiopia

L’Etiopia è attraversata da un conflitto civile che affonda le radici in riforme politiche e tensioni etniche mai risolte. Nel novembre 2020 la guerra in ha trascinato il Paese in una spirale di violenza; l’accordo di Pretoria del 2 novembre 2022 ha fermato le ostilità principali, ma non ha ricomposto la fragile unità nazionale. Da allora il fronte si è spostato: nella regione di Amara le milizie si oppongono al governo, in Oromia continua la guerriglia dell’Oromo Liberation Army, e in altre regioni covano rivolte latenti.

Milizie ribelli dell’Oromo Liberation Army

Il bilancio umano resta drammatico: milioni di sfollati interni e rifugiati, comunità isolate, ospedali devastati e coltivazioni abbandonate. Più di 20 milioni di persone hanno bisogno di assistenza, e casi documentati di fame e malnutrizione mostrano come la guerra abbia aperto anche una carestia silenziosa. Organizzazioni indipendenti e internazionali, come ad esempio l’ufficio delle Nazioni Unite che coordina gli interventi umanitari nelle emergenze (OCHA) denunciano massacri, stupri di massa e detenzioni arbitrarie, segni di una violenza che non conosce tregua.

A livello politico, il governo di Abiy Ahmed tenta di ricostruire legittimità interna e sostegno internazionale, ma il Paese resta polarizzato, con un’economia piegata dalla guerra e giovani generazioni costrette a scegliere tra emigrazione, reclutamento o sopravvivenza quotidiana. In questo quadro, la pace non è un punto di arrivo, ma un traguardo ancora lontano.

Congo

Il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo è un braciere che si riaccende da decenni, ma negli ultimi due anni è esploso con nuova ferocia: la rinascita del gruppo M23 dal 2022 ha innescato un’ondata di offensive che alla fine del 2024 e all’inizio del 2025 ha spinto i ribelli sempre più vicino – e in alcuni casi dentro – città chiave come Goma e Bukavu.

Il teatro è l’est del Paese, un mosaico di milizie locali, forze governative e attori stranieri che si contendono controllo, influenza e risorse minerarie. Le accuse di sostegno ruandese all’M23 -respinte dal Ruanda stesso – hanno trasformato un conflitto locale in un nodo di tensione regionale che rischia di trascinare anche gli Stati vicini.

Milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria già prima dell’ultima ondata di violenze, che hanno spinto oltre un milione di persone a spostarsi nelle province della regione di Kivu per sfuggire agli attacchi. Le infrastrutture sanitarie ed economiche sono state devastate, con interruzioni nei rifornimenti e crescenti segnali di insicurezza alimentare.

Organizzazioni per i diritti segnalano abusi gravi: esecuzioni sommarie, stupri come arma di guerra e ostacoli sistematici all’assistenza elementi che hanno portato l’ONU e gruppi indipendenti a parlare di crimini di guerra. La guerra coniuga interessi locali e geopolitici: controllo dei minerali, rivalità etniche e politiche interne si sovrappongono, mentre la comunità internazionale fatica a imporre dei corridoi sicuri per i civili.

Birmania

Il colpo di Stato del 1° febbraio 2021 ha portato definitivamente verso il baratro un Paese già segnato dalla violenza: la giunta militare ha schiacciato il dissenso, e da allora proteste civili e scioperi si sono armati in una resistenza che ha preso forma con i People’s Defence Forces (PDF) e il Governo di Unità Nazionale.

Il conflitto è frammentato: vecchie armate ribelli si sono ricongiunte in vari fronti con formazioni locali e gruppi di resistenza; nei fatti la giunta militare controlla solo una porzione del territorio, mentre ribelli e milizie governano ampie aree rurali.
La strategia militare si è fatta brutale: raid aerei, incendi dei villaggi e attacchi contro ospedali e scuole hanno costellato il conflitto di crimini che organizzazioni internazionali definiscono come possibili crimini di guerra, sottolineando che i civili sono stati sistematicamente colpiti.

Il conto umano è enorme e in crescita: oltre 3 milioni di sfollati interni, una crisi alimentare che nel 2025 colpisce decine di milioni di persone e un accesso umanitario fortemente limitato. Le agenzie Onu pianificano di raggiungere 5,5 milioni di persone con il piano umanitario 2025, ma i fondi e i corridoi umanitari restano insufficienti.

Siria

La guerra in Siria è cominciata nel 2011 come sollevazione popolare contro Bashar al-Assad e si è rapidamente trasformata in un conflitto multilivello: frammentazione territoriale, milizie locali, jihadisti e attori stranieri che hanno fatto della Siria l’ennesimo campo di prova geopolitico. Nel corso degli anni il teatro siriano ha visto diversi interventi esterni: la Russia è entrata militarmente nel 2015 ribaltando l’equilibrio a favore di Assad; l’Iran e milizie alleate (fra cui Hezbollah) hanno consolidato la propria presenza sul terreno; la coalizione guidata dagli Stati Uniti era presente sul territorio formalmente per combattere l’Isis; la Turchia ha lanciato operazioni nel nord per attaccare le forze curde.

Le prime elezioni dopo la caduta di Assad, in Siria abbiamo visto l’esclusione al voto delle donne e di due minoranze come quelle dei curdi e dei drusi. I foto, Abu Mohammad al-Jolani

Il risultato è stato un territorio frammentato in diverse zone di controllo e una pace impossibile da negoziare centralmente. La fuga di Assad dopo le proteste del 2024 non ha cambiato le cose. Secondo l’ONU oltre 16,7 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria e, a fine 2024, più di 6 milioni di persone erano registrate come rifugiati all’estero, mentre oltre 7 milioni risultavano come sfollati interni. La crisi è una ferita aperta che si mescola con povertà, insicurezza alimentare e infrastrutture distrutte. Sui diritti umani, rapporti Onu e ong documentano bombardamenti di aree civili, detenzioni arbitrarie e altri crimini che hanno segnato la traiettoria della guerra; le stime delle vittime variano, ma indagini ufficiali e monitor indipendenti collocano le decine o centinaia di migliaia di morti e milioni di vite spezzate. A livello politico abbiamo appena assistito alle prime elezioni dopo la caduta di Assad [2], che hanno visto l’esclusione al voto delle donne e di due minoranze come quelle dei curdi e dei drusi, portando diversi osservatori internazionali a definirle come elezioni farsa, mentre viene rafforzata la posizione di Abu Mohammad al-Jolani, che, da ex jihadista è stato completamente riabilitato agli occhi dell’opinione pubblica.

Kurdistan

I Peshmerga, l’esercito curdo

Il Kurdistan non è uno Stato riconosciuto, ma una regione che si estende dalla Turchia all’Iran, passando per Iraq e Siria, abitata dai curdi, considerati come il più grande popolo al mondo senza uno Stato. La Kurdistan Region dell’Iraq è la più riconosciuta a livello istituzionale: è una regione federale riconosciuta dalla Costituzione irachena del 2005, con governo, parlamento e forze armate proprie (Peshmerga), con capitale Erbil. In Siria il progetto noto come Rojava ha creato dal 2012 una autonomia de-facto con strutture amministrative e militari proprie. In Turchia e Iran esistono ampie aree abitate da curdi ma senza nessuna autonomia, anzi: le rivendicazioni politiche della popolazione si scontrano con gli Stati nazionali in una storia di conflitto e repressione. In Turchia, la lotta tra lo Stato e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) dura da oltre quarant’anni: attentati, operazioni militari su entrambi i lati del confine e campagne di sicurezza hanno segnato intere generazioni. Nel 2025 il PKK ha annunciato una svolta [3] con una dichiarazione di cessate il fuoco e di abbandono della lotta armata, un segnale di cambiamento che resta però fragile, soprattutto per le mire di Ankara, con il governo che si è spinto più volte fino a negare l’esistenza dei curdi come gruppo etnico. In Siria le forze curde hanno giocato un ruolo decisivo contro l’Isis, ma la loro alleanza con Washington non ha cancellato l’ostilità turca né la complessità dei rapporti con Damasco: il nord-est è teatro di incidenti, negoziati intermittenti e tentativi di integrazione. L’Iraq ospita sia il governo regionale del Kurdistan, con i Peshmerga che difendono aree semi-autonome, sia basi storiche del PKK nel Qandil; le tensioni tra Baghdad, Erbil e attori esterni (Turchia, Iran) rendono instabile ogni tentativo di stabilizzare i rapporti, mentre la regione resta cruciale nelle strategie anti-ISIS.

Libia

Dalla caduta di Gheddafi nel 2011 il Paese si è frammentato in centri di potere locali e milizie, fino allo scivolamento in una guerra per fette di territorio e risorse. Dal 2014 la divisione est-ovest si è cristallizzata: da un lato l’autoproclamata Libyan National Army di Khalifa Haftar (appoggiata da reti e governi stranieri), dall’altro governi e coalizioni basate a Tripoli che hanno cercato legittimità internazionale. La spinta decisiva arrivò con l’offensiva di Haftar su Tripoli (2019–2020) e la reazione turca che riequilibrò il fronte; un cessate il fuoco mediato dall’ONU nell’ottobre 2020 frenò i combattimenti, ma non ha sanato la frattura politica. Restano forti interessi di potenze regionali e una costante competizione per il controllo del petrolio: l’energia resta la linfa economica del Paese e arma di pressione politica.

Tutto questo significa migliaia di sfollati interni, centinaia di migliaia di vulnerabili, e un’economia che dipende quasi esclusivamente dal petrolio, esposta a chiusure e blocchi delle produzioni che paralizzano servizi e stipendi. Senza un accordo politico inclusivo e garanzie internazionali sul controllo delle risorse, la tregua rimane fragile e la minaccia di una nuova esplosione di violenza – locale o regionale – resta alta.

Yemen

La guerra in Yemen è una ferita che non smette di sanguinare: esplosa quando gli Houthi presero Sana’a nel 2014 e degenerata con l’intervento della coalizione guidata dall’Arabia Saudita nel 2015, il conflitto ha trasformato il Paese martoriato tra i diversi fronti locali, ingerenze regionali e problemi economici. La guerra ha spezzato istituzioni e mercati: blocchi dei porti, restrizioni delle importazioni e interruzioni nel pagamento dei salari hanno spinto oltre 17 milioni di persone verso l’insicurezza alimentare grave, con i bambini che pagano, come sempre, il prezzo più alto.

Sul piano dei diritti, rapporti indipendenti documentano attacchi ripetuti contro ospedali, scuole e civili, detenzioni arbitrarie e pratiche che possono configurare crimini di guerra; l’accesso degli aiuti è spesso ostacolato da rischi e detenzioni di operatori.
Un’instabilità accresciuta anche dal ruolo degli Houti – che controllano il nord del Paese – a fianco dei palestinesi, che negli ultimi mesi ha portato ad attacchi e bombardamenti da parte degli Stati Uniti prima e di Israele poi.

Oggi la crisi è innanzitutto umanitaria: secondo le stime dell’ONU per il 2025 quasi 19,5 milioni di yemeniti hanno bisogno di assistenza e protezione: una popolazione intera esposta a fame, malattie e mancanza di servizi di base.

Nonostante pause e negoziati intermittenti, la pace resta lontana: senza corridoi protetti per i civili, finanziamenti stabili e una pressione diplomatica credibile che affronti le cause politiche del conflitto, l’emergenza yemenita continuerà a crescere e il conto umano a salire.

Nigeria

La guerra in Nigeria non è un unico fronte ma un intreccio di crisi che percorrono le diverse regioni del Paese. Nel nord-est Boko Haram e la sua costola ISWAP continuano ad alternare attentati, rapimenti e controllo di territori rurali, impedendo qualsiasi ritorno alla normalità. Nel nord-ovest le bande armate trasformano villaggi in obiettivi: furti, sequestri e attacchi a catena costringono intere comunità a spostarsi. Al centro-nord, tensioni tra pastori e agricoltori si sono trasformate in scontri, lasciando scie di vendette e sfollati. Nel sud-est cresce il separatismo e la pressione di gruppi come l’ESN/IPOB, mentre nel delta del Niger le milizie legate al petrolio continuano a saccheggiare risorse, aggravando corruzione e insicurezza.

Alla fine del 2024 si stimavano milioni di sfollati interni e centinaia di migliaia di persone dipendenti dagli aiuti. Intanto le scuole chiudono, le coltivazioni restano incustodite, le economie locali vengono svuotate e le forze di sicurezza appaiono spesso inefficaci o colluse, complicando qualsiasi risposta credibile.

Risolvere la crisi richiederebbe di andare oltre la forza per concepire interventi mirati per proteggere civili, ripristinare servizi essenziali, provare a riconciliare le diverse comunità e smantellare le economie illecite che alimentano la violenza. Senza questi obiettivi, ogni tregua rischia di essere solo un intervallo prima della prossima ondata di sangue.

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Mario Catania

Giornalista professionista freelance, specializzato in cannabis, ambiente e sostenibilità, alterna la scrittura a lunghe camminate nella natura.