«Non sono venuto a guidare buoi, sono venuto a risvegliare i leoni»: così Javier Milei [1], insediatosi al governo di Buenos Aires il 10 dicembre 2023, aveva sintetizzato l’approccio con cui era intenzionato a risollevare il Paese dalla cronica crisi economica che lo attanaglia. A meno di due anni dalla sua elezione, però, il presidente argentino si trova a fronteggiare l’ennesima crisi e a fare i conti con il fallimento della sua “rivoluzione libertaria”. L’economista ultraliberista, salito al potere incarnando l’immagine di un outsider antisistema, aveva promesso di «fare a pezzi lo Stato», abolire la burocrazia e restituire al mercato la piena sovranità. In nome della “libertà economica”, ha varato il Decreto de Necesidad y Urgencia n. 70/2023, noto come il Megadecreto, un provvedimento che ha permesso al governo di legiferare in circostanze di emergenza, con cui ha smantellato decine di leggi sociali e liberalizzato settori chiave come affitti, sanità, commercio estero e tutela ambientale, producendo una deregolamentazione [2] selvaggia. Quella che doveva essere la “cura shock” per rilanciare l’economia si è trasformata in un esperimento sociale devastante. Nel giro di pochi mesi, i salari pubblici sono stati congelati, le sovvenzioni energetiche cancellate, il welfare ridimensionato. L’inflazione, pur in calo rispetto ai picchi iperbolici del 2023 in cui aveva toccato il picco del 211,4%, continua a divorare i redditi. Nel secondo trimestre 2025 il deficit ha superato i tre miliardi di dollari, trainato dal peso degli interessi sul debito. I generi di prima necessità aumentano di settimana in settimana, mentre il peso argentino crolla nuovamente sui mercati. Le classi medie, colpite da una tassazione indiretta crescente e dal taglio dei servizi, si impoveriscono; i ceti popolari scivolano nella miseria. Negli ultimi mesi, le strade di Buenos Aires e Córdoba sono tornate a riempirsi di manifestazioni, mentre sindacati e movimenti denunciano la “dittatura del mercato”.
L’Argentina vive una contraddizione feroce, ostaggio di un governo che predica la libertà, ma impone misure coercitive che cancellano tutele e diritti sociali. Milei si è presentato come l’uomo che avrebbe combattuto “la casta”, ma è finito per governare per conto di quei poteri finanziari [3] che denunciava e che oggi lo sostengono. Il problema centrale è la bilancia dei pagamenti: nei prossimi tre anni l’Argentina dovrà onorare impegni esteri per oltre 45 miliardi di dollari, di cui 15 al Fondo Monetario Internazionale. Il presidente statunitense Donald Trump incontrerà Milei il 14 ottobre, durante la settimana in cui la Banca Mondiale e il FMI si riuniranno a Washington. Il 26 ottobre l’Argentina voterà per le elezioni legislative di medio termine, nelle quali il partito di destra di Milei punta a ottenere seggi per rafforzare la sua posizione di minoranza. Di fronte alla crisi e al rischio di un nuovo default, Washington è intervenuta con un’operazione tanto spettacolare quanto controversa: una linea di credito da 20 miliardi di dollari per sostenere le riserve della Banca centrale e stabilizzarne il peso. L’annuncio, salutato da Milei come «un voto di fiducia dell’Occidente», porta la firma del segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent, uomo di fiducia di Donald Trump e figura centrale della finanza speculativa internazionale. Dietro questo piano di “salvataggio”, si nasconde una trama di interessi privati che intreccia politica e alta finanza, promosso grazie alle pressioni di Rob Citrone, miliardario fondatore del fondo Discovery Capital e amico di lunga data di Bessent. I due si conoscono dai tempi in cui lavoravano insieme per George Soros: una rete di rapporti che ha attraversato decenni di investimenti globali, speculazioni e operazioni valutarie miliardarie. Già in passato, Citrone aveva convinto Bessent a operazioni rischiose – come la famosa scommessa sul dollaro contro lo yen – che gli fruttarono profitti enormi. Oggi, la storia sembra ripetersi, ma su scala geopolitica. Citrone è uno dei principali investitori nei titoli argentini: quando la politica di Milei ha iniziato a vacillare e il peso è crollato, le sue posizioni hanno rischiato di trasformarsi in perdite colossali. Da qui, secondo le fonti [4], la pressione su Bessent per ottenere un intervento di salvataggio. Poche settimane dopo, il Tesoro americano ha annunciato la linea di credito. I mercati hanno reagito immediatamente: i bond argentini, che stavano precipitando, hanno guadagnato fino al 20% in un giorno e chi li deteneva – tra cui lo stesso Citrone e diversi fondi vicini a Trump – ha incassato milioni. Nonostante le accuse di conflitto d’interesse, Bessent ha respinto ogni sospetto, sostenendo che l’obiettivo sia «stabilizzare un alleato dell’Occidente» e impedire che l’Argentina «cada nella sfera d’influenza cinese». Tuttavia, il sospetto rimane: la linea di credito americana appare meno come un atto di cooperazione e più come un’operazione di salvataggio per investitori privati legati alla Casa Bianca. Il piano, inoltre, non prevede stanziamenti a fondo perduto, ma condizioni dure: privatizzazioni accelerate, ulteriori tagli alla spesa pubblica e apertura completa al capitale straniero, legando Buenos Aires mani e piedi a Washington.
Il salvataggio americano ha offerto a Milei solo una tregua momentanea: il contesto economico resta instabile e la produzione industriale è in caduta libera, mentre il tasso di disoccupazione [5] si è attestato al 7,6% nel secondo trimestre del 2025. L’economia argentina mostra segnali di stagnazione [6], con migliaia di piccole imprese chiuse dall’inizio del 2024 e consumi in forte calo. Pur essendo tecnicamente l’economia argentina uscita dalla recessione [7], la ripresa resta fragile e il mercato del lavoro risente della contrazione produttiva. I sussidi tagliati hanno provocato una crisi energetica nelle province del sud, mentre il costo dei trasporti e dei beni alimentari continua a crescere. Gli indicatori economici segnalano che la ripresa promessa dal governo non arriverà prima del 2026. Sul piano politico, Milei appare sempre più isolato. Il Congresso blocca molti dei suoi decreti, i governatori provinciali si ribellano ai tagli, i sindacati organizzano scioperi generali, mentre il suo elettorato inizia a disilludersi. Il sostegno statunitense, presentato come segno di forza, rischia di diventare un cappio politico: un governo che si proclama sovrano ma sopravvive solo grazie a un prestito straniero non può più dirsi indipendente. A livello internazionale, il caso argentino diventa emblematico. Per Washington, sostenere Milei significa difendere un modello economico che riduce lo Stato e privatizza tutto, ma che produce fame, disoccupazione e tensioni sociali. Per l’Occidente nel suo complesso, l’Argentina rappresenta un test: fino a che punto si può sostenere un esperimento neoliberista che genera instabilità e perdita di diritti? Dietro il linguaggio delle riforme e della libertà di mercato, si intravede una verità più amara: l’Argentina è diventata un laboratorio del neoliberismo estremo, dove la mano invisibile del mercato è manovrata da interessi ben visibili e spinge il Paese in una spirale di dipendenza e impoverimento.