Il governo venezuelano ha decretato lo stato di emergenza in tutto il Paese, evocando la minaccia di una «aggressione militare statunitense». Lo ha annunciato la vicepresidente Delcy Rodríguez, sottolineando che il decreto conferisce al presidente Nicolás Maduro «poteri speciali» per agire in materia di difesa e sicurezza di fronte a minacce esterne. Secondo fonti di Washington citate dal New York Times, sarebbero previsti, infatti, attacchi imminenti contro obiettivi venezuelani, con l’intento di rovesciare Maduro «in un modo o nell’altro». Il decreto, secondo le fonti, renderebbe possibile la mobilitazione delle forze armate su tutto il territorio e un controllo rafforzato sui servizi pubblici e sul comparto petrolifero, centrali per il sistema economico nazionale. Pur sancito per un periodo iniziale di 90 giorni, il provvedimento potrà essere rinnovato per altri 90. A Caracas è già in vigore dall’8 agosto uno stato di emergenza di natura economica, della durata di due mesi, per affrontare la crisi in cui il Paese si trova da tempo.
Dietro la misura proclamata dal governo venezuelano si staglia il quadro geopolitico oggi in piena tensione [1]: dalla fine di agosto, gli Stati Uniti hanno accentuato la loro presenza militare nel Mar dei Caraibi, schierando navi e assetti aerei con la giustificazione della lotta al narcotraffico. Finora, questi interventi hanno provocato 17 vittime, tutte venezuelane. Per contrastare proprio il narcotraffico, in passato Washington ha utilizzato pattugliamenti della Guardia Costiera o missioni mirate, da settimane, invece, mette in campo risorse paragonabili a quelle di una campagna militare. È evidente che la finalità non si esaurisce nella lotta al crimine organizzato: la pressione è diretta contro Maduro e il suo governo, accusati di essere alla guida del cosiddetto Cártel de los Soles e di utilizzare il Paese come hub per i traffici illeciti. La domanda cruciale è se l’attuale mobilitazione preluda a un intervento militare o se si tratti solo di una dimostrazione di forza. Il Venezuela ha reagito inviando l’esercito in tutto il Paese per addestrare la milizia popolare venezuelana, che conta milioni di membri. Caracas denuncia che dietro tali operazioni si occultino reali obiettivi di pressione, «provocazioni illegittime» volte a frammentare la sovranità venezuelana.
Maduro ha parlato apertamente di un disegno di destabilizzazione, che ha già nel passato effettuato tentativi espliciti di “regime change”. La storia americana conosce precedenti di invasioni “mirate”, come quella di Panama del 1989, condotte con la giustificazione della lotta al narcotraffico e culminate proprio in un cambio di regime. La dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo venezuelano, in questo senso, va letto come difensivo, ma anche come un messaggio politico: la sovranità nazionale non è negoziabile, neppure di fronte alla superpotenza che proclama diritti sovranazionali sull’ordine atlantico. L’amministrazione americana, nel frattempo, continua a negoziare la fornitura di petrolio venezuelano, mentre intensifica la pressione militare e diplomatica. Tuttavia, se da un lato Maduro può presentare il provvedimento come un atto necessario contro la minaccia esterna, dall’altro non si può ignorare che tale stato di emergenza rafforzi il già consistente spazio di potere discrezionale che il governo esercita, con limitazioni alle libertà civili e alla trasparenza istituzionale. La storia recente del Venezuela offre molteplici esempi di eccezioni autorizzative che non sono state temporanee, ma si sono fossilizzate in pratiche autoritarie. Alla vigilia dell’ennesima crisi, il Venezuela certifica che la partita resta aperta: non solo tra Caracas e Washington, ma tra un Sud che reclama dignità e un Nord che pretende diritti di intervento globali, con armi o con ordinanze d’emergenza.