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Perù: storica condanna per i tagliatori di legna che uccisero i leader indigeni Saweto

In Perù, quattro tagliatori di legna che operavano illegalmente nella regione di Ucayali sono stati condannati a 28 anni e 3 mesi di carcere per l’assassinio di altrettanti leader indigeni locali, avvenuto alla fine dell’agosto 2014. Si tratta di una sentenza «storica», spiegano gli stessi avvocati, seppur giunta a undici anni di distanza dai fatti. L’America Latina, infatti, è il territorio dove si verifica la quasi totalità degli omicidi di leader o membri di comunità locali impegnati nella difesa dell’ambiente (sono oltre una ventina quelli attualmente irrisolti nel solo Perù), ma questi rimangono per lo più impuniti. Per questo motivo, la sentenza rappresenta un importante passo avanti nella lotta per la tutela della vita e dell’operato dei membri delle comunità locali, il cui ruolo nella difesa dell’ambiente locale è fondamentale.

L’omicidio di Edwin Chota, Jorge Ríos, Leoncio Quintísima e Francisco Pinedo, leader Ashéninka della comunità nativa Alto Tamaya-Saweto (nella regione di Ucayali), è avvenuto il 1° settembre 2014 lungo il confine tra Perù e Brasile, mentre i quattro erano in viaggio per incontrare altri leader nativi impegnati nella lotta per la difesa della terra. Proprio in quella zona, dal 2008, Chota e gli altri conducevano una attiva campagna contro il disboscamento illegale del territorio, ma ogni tentativo di denunciare il taglio illegale alle autorità è stato archiviato. Nessuno ha avuto loro notizie per una settimana, fino a quando, il 6 settembre dello stesso anno, sono stati ritrovati i resti dei loro corpi: dopo essere stati uccisi a colpi di arma da fuoco, i quattro leader nativi erano stati fatti a pezzi e bruciati.

La procura ha identificato [1] in José Estrada e Hugo Flores i mandanti e nei fratelli Atachi gli esecutori materiali ed ha portato il risarcimento civile per le vedove a 100 mila soles a testa (pari a 28.500 dollari), per un totale di 114 mila dollari. Latam Maritza Quispe, avvocata costituzionalista dell’Istituto di Difesa Legale, ha dichiarato alla rivista ambientale Mongabay che si tratta di una «sentenza storica», in quanto per la prima volta la magistratura «riconosce il lavoro delle popolazioni indigene nella difesa dei diritti umani e del loro rapporto con la natura». Secondo un’altra avvocata, Rocío Trujillo Solís, il pronunciamento della procura «non solo riconosce il danno immateriale alle vedove e ai bambini, ma a tutta la comunità indigena Soweto» e che questo «genera un precedente per le altre cause di [omicidi di] difensori indigeni e un messaggio di resistenza e speranza contro la impunità»

Sono oltre una trentina, infatti, i casi ancora irrisolti di omicidio di leader nativi impegnati contro la devastazione ambientale nel solo Perù. Qui, come in altre parti dell’America Latina, le violenze sono portate a termine da soggetti che nutrono interessi per le risorse locali, che si tratti della criminalità organizzata, di persone pagate dalle multinazionali o di singoli attori. A complicare le indagini vi è il fatto che spesso i pubblici ministeri non dispongono delle risorse necessarie – in termini di fondi, ma anche di personale specializzato – per operare con le comunità locali. Dei 146 omicidi di questo genere avvenuti [2] nel mondo lo scorso anno, 117 (l’82%) hanno avuto luogo nel solo Sud America, un trend che sostanzialmente conferma [3] quello dell’anno precedente.

A Saweto, nonostante la comunità sia in possesso di un titolo di proprietà sul territorio, la maggior parte degli uomini è stata costretta ad allontanarsi dopo aver ricevuto minacce di morte dai tagliatori di legna illegali, che continuano a disboscare il territorio appropriandosi del legname da rivendere alle aziende. Non si tratta dell’unica attività vietata che devasta l’ambiente: nella zona sono presenti anche diversi cacciatori e pescatori che operano illegalmente in maniera analoga. Per arginare il problema nella regione di Ucayali, alla fine dello scorso agosto alcune organizzazioni native hanno presentato [4] al ministero della Giustizia e dei Diritti Umani del Perù un piano di emergenza composto da 12 proposte concrete per proteggere i soggetti impegnati nella difesa della terra, cercando di colmare il divario tra gli impegni ufficiali assunti dal governo e la realtà sul territorio. Tra queste vi è, per esempio, l’approvazione di un Protocollo di intervento della polizia per la protezione dei difensori, in sospeso da anni, o l’installazione di centri sanitari nelle comunità maggiormente colpite dalla violenza, come di tracciare finalmente in maniera dettagliata sullo stato delle minacce contro chi protegge l’ambiente.

All’indomani della sentenza, il Difensore civico ha chiesto [5] che siano velocizzate le procedure anche nei casi degli altri 23 leader indigeni uccisi negli ultimi anni, evitando ulteriori ritardi. Una strada per il momento tutta in salita, ma nella quale questa sentenza potrebbe segnare un punto di svolta.

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Valeria Casolaro

Ha studiato giornalismo a Torino e Madrid. Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, frequenta la magistrale in Antropologia. Prima di iniziare l’attività di giornalista ha lavorato nel campo delle migrazioni e della violenza di genere. Si occupa di diritti, migrazioni e movimenti sociali.